La Russia dei soviet dopo la rivoluzione è l’eterno sogno imperiale

Il grande scrittore Israel Joshua Singer racconta la vita quotidiana in Unione Sovietica tra l’autunno del 1926 e i primi mesi dell’anno successivo. A Mosca, Kiev, Odessa, Minsk, Crimea, Donbass.  E in tanti villaggi abitati dalle comunità ebraiche. Quel viaggio giornalistico è divenuto un libro pubblicato per la prima volta nel 1928. Ora “La nuova Russia” è disponibile in italiano per Adelphi. Un documento straordinario, ricchissimo di testimonianze. Contraddittorio. Come è una continua contraddizione la storia russa.


7 giugno 2024
Storico reportage
di Enzo Manes

Magnitogorsk – Urali

Negli ultimi mesi del 1926 e nei primi dell’anno a seguire lo scrittore Israel Joshua Singer (1893 – 1944) si trovava in Unione Sovietica. Su sollecitazione del direttore del quotidiano newyorkese “Forverts”, un foglio yiddish piuttosto letto. Con lo scopo di allestire un reportage della Russia passata da circa dieci anni all’esperienza del comunismo. Per lui non si trattava di una prima volta, bensì di un ritorno nella grande terra dei soviet avendola incontrata agli esordi della tempesta rivoluzionaria. Di quel suo secondo viaggio ne uscì un racconto tambureggiante, densissimo di storie; corrispondenze che vennero raccolte in libro pubblicato nel 1928. Ora, quel suo lavoro così prezioso, è in italiano nel volume “La nuova Russia” per i tipi di Adelphi (2024) nella traduzione di Marina Morpurgo.

Un reportage per niente schierato

Certo, le drammatiche vicende della guerra all’Ucraina, hanno contribuito a ridare corpo all’interesse verso la storia russa. Una storia importante, drammatica, sempre ostica da interpretare. Sensazioni confermate dalla lettura dell’asciutto, incisivo, tutt’altro che distaccato reportage di Singer, la cui capacità di osservazione ha trovato un ottimo giaciglio in una scrittura da autore di vaglia (leggere i romanzi “La famiglia Karnowski” e “Yoshe kalb” per coglierne la statura). Il più delle volte trascurata, presa colpevolmente sotto gamba, a vantaggio del fratello minore Isaac Bashevis Singer che lo definiva “scettico fino al midollo”. E se scetticismo doveva riscontrarsi in “La nuova Russia” I.J Singer lo ha espresso in disincanto, misura, essenzialità. Perciò totalmente estraneo a qualsivoglia tentativo di trattare quel viaggio come occasione preventiva di schierarsi per un verso o per l’altro. Lui si è preso il compito di vedere, conoscere, incontrare, dialogare e spingere, infine, i polpastrelli sulla macchina per scrivere. Dopo ogni tappa. Dopo aver annotato anche frettolosamente supportato da ottima memoria.

A sinistra La nuova Russia, a destra Israel Joshua Singer

Come vivevano le comunità ebraiche

Nel suo lungo viaggio dentro la grande Russia I.J.Singer ci teneva a verificare quel che gli riusciva per il tempo che si era dato. E come stavano vivendo le comunità ebraiche così storicamente radicate (d’altronde, il giornale che avrebbe ospitato il suo lavoro era di lingua yiddish). Probabilmente riteneva che anche da quella verifica avrebbe maturato un giudizio sullo stato della Russia comunista.
Quella meticolosa verifica ha determinato un riscontro contradditorio. Che l’autore non ha inteso alleggerire in alcun modo. Proprio perché le testimonianze raccolte di villaggio in villaggio, di città in città, di regione in regione, nella modalità più ordinaria – anche solo orecchiando – comunicavano esperienze personali oggettivamente diverse. Non sempre la pervasività del regime riusciva ancora a raggiungere l’obiettivo di controllare tutto. Di lì a poco sarebbe accaduto con i piani quinquennali di Stalin e il periodo del terrore e anche un ritorno programmatico all’antisemitismo di imperiale memoria.

L’impero non è mai tramontato

I mesi del racconto di Singer sono stati un lasso di tempo straordinario per prendere atto dell’imminenza dell’insopportabile tragedia. In nuce, qui, si può già avvertire l’anticipazione del catastrofico terremoto. Ma il lettore è chiamato a rintracciarlo nelle pieghe di storie disseminate di luci e ombre. Singer non può fare che a quel modo. Non per qualche ritrosia a svelare tutto l’arcano, la mistificazione, il tradimento delle aspettative di quel grande popolo, ma perché ancora quella fotografia non gli appare così nitida. Perché le voci raccolte gli hanno detto, ma non indirizzato in una sola direzione. Addirittura, specie nelle città più grandi seppur nell’Unione Sovietica ormai periferiche come Kiev (sintetizza: «A Kiev non c’è nulla di speciale. Questa città ha subito un’ingiustizia. Abituata per anni a essere capitale, non riesce ad accettare il nuovo ruolo di città di provincia, quindi è triste, fredda») e Odessa, Singer riconosce che non si è per nulla interrotta la storia con l’epoca zarista. Sull’impero non è caduta la spada di Damocle della falce e del martello. Impero è stato e impero è continuato ad essere negli scopi del governo e nella memoria collettiva. Negli edifici come nelle parole. È passato anche il sovietismo, ma nella Russia di Putin è rimasta l’affezione imperiale.
Quanti borbottii, comunque, nel libro. Quanto malessere. La gente di Crimea – terra di luci, fiori e colori – ad esempio non le manda a dire. E a Singer ha confessato piuttosto alterata che il regime “ci sta facendo precipitare nel caos”. Intendendo che una maledizione è piombata su di loro spacciata per benedizione, per un nuovo mondo che chiude finalmente i conti con le ingiustizie. Ma la terra si rivela dura come la verità.

Israel Joshua Singer (à droite) avec le groupe Khalyastre le gang de poétes et écrivains expressionnistes Mendl Elkin, Peretz Hirschbein, Uri Zvi Greenburg, Peretz Markish, Melech RavitchVa

L’ostilità della sinistra occidentale e dell’ebraismo newyorkese

Il libro è un susseguirsi continuo e articolato di fatti che spesso smentiscono i fatti precedenti. Lo smarrimento del popolo – anzi, dei popoli perché il bielorusso ha una cultura che non è quella di chi vive in Ucraina, in Crimea o a Mosca. E così l’ebreo delle campagne che ama e lotta per l’autonomia della propria fattoria e per continuare ad affermare un senso di appartenenza alle sue radici e al villaggio – è nel raccolto delle voci che finiscono nella cesta di Singer.
In Occidente, il lavoro di Singer verrà aspramente criticato dalla sinistra. Il suo reportage trattato come il tentativo ideologico di screditare l’esperienza del comunismo sovietico. Soprattutto si scaglia contro di lui la faziosa realtà stalinista interna alla comunità ebraica newyorchese che in quegli anni gode di una certa popolarità. Lo scrittore e critico letterario Francesco M. Cataluccio ne dà conto in un documentato scritto collocato in chiusura di libro, come illuminante e opportuna postfazione. Quelle sono pagine che aiutano a comprendere il vissuto di Israel Joshua Singer, il rapporto con il fratello minore, l’assai più celebre e celebrato Isaac Bashevis, gli umori del tempo in cui uscì il suo reportage. Allora si può riprendere qualche riga del contributo di Cataluccio per cogliere quanto sia stato autentico, scevro da incrostazioni e per niente orientato il reportage di I.J Singer.  Scrive così: «Israel Joshua ripete spesso che nell’Unione Sovietica si mescolano vecchio e nuovo. Guardando la torre del Cremlino, già allora coglie bene come la Russia sovietica sia la continuazione delle ambizioni imperiali del passato zarista: ‘Accanto alla bandiera rossa illuminata dalla luce elettrica, il simbolo della Russia comunista, che sventola nella notte sulla città come una torcia accesa, innalza il suo grido verso il cielo la vigorosa aquila bipede, il simbolo della Russia del passato, degli zar e della Chiesa ortodossa’».  

Un disegno utopistico che continua

Quello di Singer è un resoconto tutto sommato amaro. Man mano che il racconto procede il processo di verità che contiene si fa implacabile. Il suo secondo viaggio nella Russia dei soviet non gli lascia margini a fantasiose e arrischiate prese di posizione. Quando l’autore si era recato per la prima volta in Russia, nell’arco temporale fra il 1918 e il 1921, il comunismo di guerra, alimentato dall’entusiasmo rivoluzionario, non gli era certamente dispiaciuto. Al contrario la Russia, a cavallo fra il 1926 e il 1927, nella morsa della Nuova Politica Economica (NEP), subiva la tragica efficacia dell’affronto di un disegno utopistico totalmente avverso a quel popolo a cui astrattamente e utilitaristicamente si richiamava.
Singer fu testimone credibile di quel terribile deragliamento umano e dunque storico. La sua ultima annotazione, proprio sul confine, a un passo dal rientro in Polonia dove viveva, condensava, quasi come un sospiro, la presenza di una frattura che avrebbe arrecato ancora molti e molti dolori: «(…) una frontiera che non separa semplicemente due paesi, ma due mondi». 
Temiamo che quella considerazione conservi tutt’ora la sua drammatica e lacerante attualità.   

Copertine di Singer