Carceri italiane: sovraffollamento e altre ingiustizie

In Italia vige un silenzio assordante, soprattutto della politica, in merito alla situazione di vita all’interno delle nostre carceri. Un dramma che tocca tutti gli anelli della catena: detenuti, polizia penitenziale, personale medico, educatori, eccetera. La situazione è in continuo peggioramento come dicono i numeri: vedi l’incremento dei suicidi. Eppure qualcosa di positivo si è fatto e si può fare. Intervista a Rita Bernardini, già parlamentare radicale, oggi presidente dell’Associazione Nessuno Tocchi Caino.


8 marzo 2024
Dietro le sbarre
Conversazione con Rita Bernardini a cura di Nicola Varcasia

@cantiere abitareristretti

Le immagini di Ilaria Salis in manette, detenuta in Ungheria, hanno fatto indignare (quasi) tutti. La notizia che Chico Forti, in carcere da 24 anni negli Stati Uniti, terminerà di scontare la condanna all’ergastolo in Italia è sembrato un atto di doverosa pietà.
Ma che situazione troveranno Chico e Ilaria quando torneranno se, come si spera, anche quest’ultima potrà essere prima o poi affidata alla giustizia italiana?
Siamo davvero sicuri che per loro sarà un vantaggio? Senza puntare il dito (magari anche giustamente) verso i difetti degli altri Paesi, è bene guardare a quello che succede in casa nostra. La situazione delle carceri italiane è, infatti, un motivo di vergogna permanente che mette i brividi solo a guardare i numeri generali. La tabella pubblicata periodicamente dal ministero della Giustizia informa che nei 189 istituti del Paese al 31 gennaio di quest’anno erano detenute 60.637 persone, a fronte di una capienza massima complessiva di 51.347.
Quello del sovraffollamento è il dato di partenza della conversazione con Rita Bernardini, già parlamentare, oggi presidente di Nessuno Tocchi Caino, l’associazione che lotta per l’abrogazione della pena di morte nel mondo e impegnata, con il piglio dei radicali italiani, anche sul tema della condizione delle carceri.

Cosa ci dicono questi numeri?

Cominciamo col dire che la capienza regolamentare indicata dal Ministero non tiene conto dei posti inagibili. Su questo siamo riusciti ottenere un po’ di trasparenza, con la pubblicazione delle schede di ciascun istituto penitenziario: andando a vedere istituto per istituto quanti sono i posti inagibili, siamo arrivati a contarne 3.400. Significa che il sovraffollamento è molto più alto e sfiora i 13.000 i detenuti in più rispetto a quanto gli istituti potrebbero contenerne. Un’enormità, anche perché sono distribuiti male.

In che senso?

Dei 189 istituti penitenziari italiani, ne abbiamo ben 105 con un sovraffollamento medio del 150% che in alcuni casi, come San Vittore, arriva al 240%.
Tutto questo è ancora più grave se consideriamo le carenze dei direttori e dei vicedirettori. Nella sua ultima audizione, il capo del DAP ha detto che ci sono 14 istituti penitenziari senza il direttore. Ci sono poi istituti grandi, come quello di Torino che ha quasi 1.500 detenuti, con un solo vicedirettore.

Cosa comporta questa carenza per la vita del carcere?

È il direttore a coordinare la realtà del singolo istituto: senza la sua firma, è difficile che le cose si muovano, dall’amministrazione al trattamento dei detenuti.

È l’unica carenza dal punto di vista dell’organico?

La polizia penitenziaria è sotto organico, checché ne dicano al Ministero. Nelle nostre visite periodiche agli istituti confrontiamo i numeri previsti dalla pianta organica con gli agenti effettivamente in servizio: spesso, nei turni notturni, un agente deve governare 3 piani. Se un detenuto si stente male o succede qualche problema, può rischiare la vita prima che arrivino i soccorsi. Per non parlare della carenza di educatori.

Mancano anche quelli?

Per quanto ci sia stato un concorso, gli educatori restano pochissimi: in un trattamento che l’ordinamento vuole individualizzato, in alcune situazioni devono seguire più di 100 detenuti.

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Come siamo messi sul piano sanitario?

Qui entriamo nel dramma. Mancano medici, psicologi e psichiatri. È una situazione veramente esplosiva e lo dimostra anche il numero dei suicidi che sono arrivati già a 21 nel 2024. Per capirci, nel 2022, anno del numero massimo di suicidi in carcere, 84, una cifra del genere era stata raggiunta alla fine di aprile. Con questa progressione, rischiamo di ritrovarci a fine anno con 120 suicidi.

Da dove cominciare per mettere ordine a questa situazione?

In genere gli istituti più piccoli sono quelli che funzionano meglio. Sono anche quelli che vengono presi a modello per le iniziative che riescono a svolgere e nei quali si abbatte la recidiva. Guardando fuori dall’Italia, in alcuni stati, come la Germania, c’è il numero chiuso: non si possono aggiungere più detenuti della capienza massima.

Come si sta muovendo la politica?

Nessun parlamento ha voluto mai affrontare seriamente il problema del sovraffollamento, tanto è vero che nel 2013 abbiamo ricevuto una condanna vergognosa per un Paese civile: la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha detto con chiarezza che in Italia si praticano «trattamenti inumani e degradanti in modo sistematico». Però, dal 2013 ad oggi, chiunque abbia governato non ha prestato molta attenzione alle carceri.

Non è stato un bene chiudere gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari?

Era una cosa giusta, ma da fare bene. Invece, il risultato è l’aumento a dismisura dei casi psichiatrici. Quando entriamo in carcere abbiamo la netta sensazione di entrare in un manicomio, vediamo persone che stanno talmente male che non dovrebbero stare in carcere. Parlo di persone che urlano, incendiano, bruciano i letti.

I cappellani lombardi hanno fatto un appello perché le celle restino più aperte, denunciando situazioni in cui i detenuti stanno chiusi in cella per 20 ore al giorno, che cosa sta succedendo?

Il precedente capo del DAP, Carlo Renoldi, aveva emanato una circolare sui circuiti penitenziari per distinguere i detenuti e consentire le attività trattamentali. Però, dato che le carceri sono piene e le sezioni avanzate – quelle in cui è possibile svolgere le attività trattamentali – sono poche, tutti gli altri detenuti restano chiusi perché non hanno niente da fare. Prima, con la cosiddetta sorveglianza dinamica, i detenuti stavano più tempo fuori dalla cella. Invece, adesso, se non hanno attività da fare, restano stanno chiusi in cella per la maggior parte del tempo. Ma il problema è proprio quello: in carcere ci sono pochi spazi e non si fa abbastanza per portare il lavoro in carcere. I cappellani hanno denunciato una cosa molto giusta.

Quanti sono i detenuti che svolgono attività qualificanti?

I detenuti che svolgono lavori qualificanti dentro il carcere sono circa 2.000, se non di meno. Sono attività molto belle, ma riservate ad una minoranza. Succede al carcere di Bollate, che è il fiore all’occhiello e dove i detenuti vengono scelti, non ci va chiunque. Noi abbiamo trovato un altro esempio a Laureana di Borrello in Calabria, con molte attività di questo tipo, ma gli altri sono un inferno.

Centro Stampa Progetto Homo Faber nel Carcere di Como

Voi cosa proponete?

La nostra proposta è quella della liberazione anticipata speciale. È un provvedimento già adottato con un decreto dall’allora ministro Cancellieri all’indomani della sentenza Torreggiani e che estendeva a 75 i giorni di sconto di pena che, a certe condizioni di comportamento durante la detenzione, il detenuto acquisisce ogni 6 mesi in carcere. Ma il decreto è scaduto alla fine del 2015. Noi oggi proponiamo una modifica dell’istituto della liberazione anticipata innalzando, per il futuro, lo sconto di pena da 45 a 60 giorni, che stabilizzerebbe la permanenza in carcere.

Non c’è il rischio che questa proposta venga letta come un passo verso l’impunità?

La liberazione anticipata è prevista dal 1975 e ne beneficiano le persone che si comportano bene e reagiscono in modo positivo alle proposte dell’amministrazione carceraria. Si tratta di adeguare la norma alle esigenze attuali del sistema carcerario, prevedendo una procedura semplificata per il riconoscimento del beneficio. Ci sono questioni tecniche da discutere, ma la cosa positiva è che maggioranza e opposizione si sono trovate d’accordo e la proposta è stata calendarizzata in Commissione giustizia per il mese di aprile.

Cos’altro si potrebbe migliorare con relativa semplicità?

Con il cappellano del carcere di Monza, abbiamo lanciato l’iniziativa Una telefonata ti può salvare la vita. In Italia i detenuti possono fare dieci minuti di telefonata a settimana. È assurdo, se pensiamo a quante ore al giorno noi passiamo con il cellulare in mano. Cosa mai potrà dire un detenuto con cinque figli in dieci minuti? Senza pensare che i detenuti dell’alta sicurezza hanno diritto a solo due telefonate al mese. Poter chiamare qualcuno in un momento di sconforto potrebbe, appunto, salvare qualche vita. In un Paese sicuramente più arretrato del nostro come la Romania, ogni detenuto può telefonare tutti i giorni a più persone per un totale di un’ora e mezza.

Cosa pensa della giustizia riparativa?

Se fatta bene, mi piace. Penso a padre Guido Bertagna, intervenuto anche all’ultimo congresso della nostra associazione, quando ha portato Giorgio Paolo Bazzega, il figlio di Sergio, il poliziotto ammazzato da Walter Alasia nel 1976, assieme a Oscar, fratello del brigatista. I due si sono riconciliati e oggi aiutano i ragazzi degli istituti minorili. Anche la storia di riconciliazione tra Irene Sisi – madre di Matteo Gorelli, che ha causato la morte dell’appuntato Antonio Santarellie Claudia Francardi, moglie del carabiniere, è bellissima: Claudia è diventata artefice della rieducazione di Matteo che si è laureato in carcere e oggi è educatore. La direzione è quella, non alimentare l’odio e far maturare una consapevolezza di ciò che si è fatto e del dolore arrecato alle vittime. Il fatto che la giustizia riparativa sia stata introdotta nell’ordinamento è utile a patto che venga alimentata bene.

@Davide Bolzoni