Ken Loach commuove: anche i cuori più induriti possono riscaldarsi

Il regista inglese classe 1936 continua a non arrendersi al modello di globalizzazione costruito secondo la logica di un mercato che non guarda in faccia a nessuno. In The Old Oak tiene ben vive le domande che per davvero gli interessano: chi stiamo diventando? Chi vogliamo essere? La storia che propone, azionando la macchina da presa nella desolante provincia britannica, racconta di ferite, di incomprensioni, di storiche ingiustizie. Ma anche di qualcosa di nuovo che può sempre accendersi quando l’umano, addolorato ma non rassegnato, si rianima.  

      


1 dicembre 2023
Ciak di speranza
di Beppe Musicco

Presentato al Festival di Cannes 2023 (Loach vinse già la Palma d’oro del Festival nel 2006 per Il vento che accarezza l’erba e nel 2017 per Io, Daniel Blake), The Old Oak dell’inglese classe 1936, è la migliore e ulteriore smentita alla voce che girava una decina d’anni fa, quando si diceva che – ormai anziano – avrebbe smesso di lavorare. Complici anche gli ultimi governi conservatori britannici (da sempre grande stimolo al fare del regista), Ken Loach ha sfornato una trilogia carica di una rabbiosa energia, di cui il presente titolo potrebbe essere l’ideale coronamento.
Insieme all’inseparabile amico e sceneggiatore Paul Laverty, Loach ha cercato i soggetti dolorosi e fuori moda, dirigendosi verso i luoghi da cui il lamento giunge però più acuto. Con Io, Daniel Blake, la povertà alimentata dalla burocrazia e dal ricatto; con Sorry We Missed You la vera e propria servitù della gleba della “gig economy”. 

Tutti vittime

Chi stiamo diventando? Chi vogliamo essere? L’esperienza delle difficoltà del sopravvivere, del lavoro totalizzante e spesso avvilente, diventano il cuore di questi film che raccontano la provincia inglese e non rischiano, mai, in nessuna scena, di incorrere in un pauperismo giudicante o nella retorica dell’anti consumismo. Loach e Laverty (specie nel secondo titolo) scardinano narrativamente il meccanismo della professione che punta sempre all’efficienza e abbassa non solo la qualità della vita ma anche la sua sostenibilità economica. Conoscono bene, perché vivono la realtà, quella piaga che, nel nostro terzo millennio, disintegra l’unità familiare e la stessa dimensione della casa. Certo, la speranza in una vita migliore sembra scomparire a causa, non dell’assenza materna, ma di un problema ancora più grande che riguarda ogni membro della società.
Ora, in The Old Oak, Loach tratta di quel brutto fenomeno da cui anche le classi liberali londinesi si sono allontanate preferendo girare lo sguardo: i rifugiati ospitati negli ostelli di tutto il Regno Unito, che subiscono abusi e attacchi da parte della popolazione locale, radicalizzata dai social media. Ma Loach non attacca i “deplorevoli” della classe operaia bianca; anzi. Potremmo dire che “pensando globalmente, agendo localmente”, li tratta con simpatia. Perché? Perché sono uguali alle loro vittime. Le forze di mercato e gli interessi geopolitici li hanno messi nella stessa posizione dei miserabili immigrati medio orientali che sono stati incoraggiati a odiare per sentirsi bene con sé stessi.

Pub, luogo di incontro e scontro

La storia è quella di TJ Ballantyne (Dave Turner), che sta attraversando una dura prova: è divorziato, è solo, è depresso, con un figlio adulto che non lo vuole neanche vedere. “The Old Oak” è il nome del suo pub, l’unico luogo di incontro della comunità in un’ex città mineraria degradata nel nord-est, e che ha un disperato bisogno di ristrutturazione.  I suoi clienti abituali ribollono di rabbia, lividi per il crollo dei prezzi delle case e rimuginano sui video di YouTube sugli immigrati. Vedono le proprietà vicine che vengono acquistate per una miseria da società immobiliari, facendo così crollare il valore delle case che speravano avrebbero incrementato la loro pensione, e sottraendo valore alla comunità. 
Poi arriva un autobus carico di profughi siriani terrorizzati e la tensione peggiora. Il film mostra anche l’errore che TJ non avrebbe dovuto commettere: gli abitanti del posto gli chiedono di aprire la stanza sul retro del pub, da tempo inattiva, come luogo di incontro per esprimere le loro lamentele. Lui rifiuta, ma senza tatto permette che funga da sede per una cena comunitaria sia per la gente del posto che per i siriani, inclusa Yara (Ebla Mari), una giovane siriana ospitata con il fratello e l’anziana madre, alla disperata ricerca di notizie del padre, imprigionato dal regime di Assad. TJ stringe con lei un’amicizia gentile, ovviamente volgarmente equivocata da alcuni bevitori del pub. 

Ken Loach nel pub abbandonato The Victoria a Murton, nella contea di Durham, trasformato nel pub, chiamato The Old Oak, per il suo nuovo film @Craig ConnorChronicle

Nessun cinismo e sarcasmo

C’è poi una scena molto commovente tra i due: lui la porta a vedere la cattedrale di Durham; Yara è profondamente colpita dall’ascolto del coro che esegue inni sacri e intimorita dall’edificio millenario. Riflette sul fatto che non vedrà mai più i templi di Palmira, costruiti dai romani e distrutti dallo Stato islamico. Intanto il rapporto tra i profughi e gli abitanti sembra peggiorare fino a un punto di non ritorno. Eppure…
Come sempre Loach, con il suo stile scarno e disadorno, che usa attori principianti o non professionisti, usa un linguaggio cinematografico che si distingue da tutti gli altri per la totale mancanza di cinismo o di sarcasmo. Ma nel suo minimalismo radicale Loach riesce ancora a commuoverci mostrando l’umano nella sua interezza: anche nei cuori più induriti dalle ingiustizie della vita, può ancora albergare la comprensione e la simpatia per chi è più debole.