Luigi Ghirri e Giovanni Chiaramonte: maestri in amicizia

Giovedì 26 ottobre si è inaugurata nello spazio espositivo del Centro Culturale di Milano la mostra fotografica “Nostalgia del futuro. L’immagine necessaria”: 90 scatti del grande Luigi Ghirri. Un viaggio struggente, emozionante, attraente curato da Giovanni Chiaramonte, maestro della fotografia e suo grande amico, con cui ha condiviso alcune delle stagioni più significative dell’arte fotografica italiana. Nei giorni scorsi Chiaramonte ci ha lasciati. E questa mostra rappresenta, per certi versi, il suo ultimo dono nel segno della grande bellezza. Come tributo al caro sodale e alla sua fedele amicizia al CMC, testimoniata negli anni, pubblichiamo stralci del saggio che ha scritto per la significativa occasione a motivo di una storia così essenziale e così dirompente.      


3 novembre 2023
Immagine viva
di Giovanni Chiaramonte

Foto in Mostra a Milano – I Luigi Ghirri. Nostalgia del futuro. L’immagine necessaria @Lucia Laura Esposto

Dentro il trasparente riquadro colore del cielo, l’occhio arrossato delle vene rispecchia nel cerchio della pupilla un inquietante paesaggio di ciminiere in controluce; all’estremo margine destro, il riflesso appena percepibile del braccio del fotografo definisce l’immagine non come un sofisticato fotomontaggio artistico, ma come un semplice e geniale objet trouvé surrealista, un ready made duchampiano, una cosa del mondo e tratta dal mondo che, illuminata dallo sguardo significante dell’uomo, ne diventa simultaneamente rappresentazione.
In cima a un alto blocco, tratto da un familiare cofanetto in tela rilegato a mano e intitolato Paesaggi di cartone, è questa la prima immagine di Luigi Ghirri che ho visto nel settembre del 1973 al Diaframma di Milano diretto da Lanfranco Colombo, la prima galleria in Europa dedicata alla fotografia. Quella immagine, con l’intera sequenza, mi rese evidente e ineludibile, in quanto già avvenuta, la distruzione del mondo secondo natura, il venir meno della fisicità del reale e il suo svanire dietro la superficie illusoria di una simulazione straordinaria e omologante che aveva dato vita a una nuova creazione fatta di seducenti figure artificiali, in un moltiplicarsi di segni invasivo e senza fine, quindi senza un fine, senza un senso, senza origine come senza destino.
Ero di fronte a ciò che Pier Paolo Pasolini aveva profeticamente indicato come i primi atti del dopo storia, quelli in cui il poeta e regista ormai senza pace s’aggirava “più moderno d’ogni moderno a cercare i fratelli che non sono più”. E infatti, più delle istanze rivoluzionarie innescate dai movimenti giovanili del ’68, più della guerra fredda tra capitalismo e comunismo, più delle battaglie in Israele, Angola, Mozambico, Vietnam, più della fame nei paesi sottosviluppati, era quell’irreversibile mutazione della forma del mondo e dello stare al mondo il vero dramma dell’uomo d’Occidente alla fine dell’Epoca Moderna, inaugurata dalla prospettiva speculare di Brunelleschi e compiuta dall’obiettivo di Galileo, la prima e decisiva macchina del nuovo sapere generativo di ogni scienza come di ogni tecnica perfezionata via via nei secoli successivi.

L’esposizione al Centro Culturale di Milano Luigi Ghirri. Nostalgia del futuro. L’immagine necessaria

Visione della coscienza e conoscenza del mondo

Pur essendo trasposizione letterale dei simulacri di questa nuova creazione, la sequenza di Ghirri non ne era il doppio inutile e inerte comune a tanta arte e a tanta fotografia del tempo, ma ne era immagine viva, comunicando, nell’intreccio di angoscia sottile e sorridente ironia, la certezza che quella fantasmagorica apparenza non era l’unica dimensione della realtà rimasta del mondo; immagine dopo immagine, proprio attraverso quei paesaggi di cartone e plastica, la fotografia di Ghirri faceva trasparire la realtà di una dimensione interiore, fino a quel momento invisibile, dove lo sguardo ritrovava lo spazio inaspettato di un luogo vero, la profondità di un nuovo orizzonte in cui era avvertibile la presenza discreta e rassicurante di un altro sguardo: lo sguardo aperto all’infinito, pieno di domande, che fa di ogni faccia un volto e di ogni uomo una persona.
Decisi di cercare quel volto, di conoscere quella persona e di lì a pochi giorni ci trovammo nella villetta a schiera nelle vicinanze di Modena dove Ghirri allora risiedeva, lavorando come geometra in un enorme palazzo dalla ridicola forma avveniristica in ferro e vetro.
Da quell’incontro nasce la nostra amicizia, la reciproca compagnia alla vocazione per la fotografia praticata come visione della coscienza e come conoscenza del mondo e inizia anche un lavoro quotidiano inteso non solo come creatività individuale ma soprattutto come espressione personale, come immagine di un sentire comune che secondo le sue parole “è il sentirsi parte di una comunità, essendo tutti e tutto costruttori della comunità stessa, dei suoi valori, delle sue atrocità e bellezze”.

Lavoro che è opera aperta

I gesti e gli atteggiamenti della gente nei luoghi comuni del lavoro, della vacanza, del commercio, dell’incontro, del gioco, analizzati in un lungo reportage attraverso l’Europa con uno spirito vicino a quello di Robert Doisneau e Willy Ronis, sono l’area esistenziale della prima ricerca di Ghirri, mai esposta né pubblicata in vita salvo qualche singola immagine poi rifluita nelle sequenze successive. Lo spostamento di una fotografia da un titolo a un altro, secondo le esigenze narrative del momento, è sin dall’inizio sistematico in Ghirri per la particolare concezione del proprio lavoro come opera aperta. Altrettanto deliberato e sistematico è il numero spropositatamente alto degli scatti selezionati per ogni sequenza completa, un numero eccedente qualsiasi normale spazio espositivo o strumento editoriale. Questo fuori misura, sempre caparbiamente perseguito a dispetto di ogni limite e di ogni consuetudine, è segno grande, sofferto, del flusso vivo della coscienza, alla cui luce soltanto l’indeterminatezza è capace di smascherare il flusso apparentemente inarrestabile della simulazione nel suo distruggere l’esperienza diretta del reale, alla cui luce soltanto il desiderio di infinto proprio del cuore umano può fare delle fotografie non ulteriori e inutili duplicati della finzione in atto, ma mappe attendibili, in grado di farci uscire dal labirinto dei segni e di farci sperimentare ancora il dono della fisicità del mondo. (…)

Punto e Virgola

Concepire il lavoro come espressione personale di un sentire comune genera la possibilità di un rapporto di cooperazione dove, superata la conflittualità competitiva dell’individualismo, è dato a ciascuno la responsabilità e il dovere di costruire insieme con l’altro e per l’altro; questo spirito fa nascere nel 1978 la casa editrice Punto e Virgola, la prima in Italia interamente dedicata alla fotografia e alla sua storia, e consente a Ghirri di pubblicare Kodachrome, con la prefazione del regista televisivo Piero Berengo Gardin, in un serrato confronto con quanto di significativo era successo e stava succedendo sulla scena artistica italiana e internazionale. Kodachrome, scrive Ghirri, “è il mio primo lavoro, con struttura precisa ed articolata, segna un momento importante perché è proprio da questa attenzione su di una realtà di secondo grado, che partono e si svilupperanno molti dei lavori successivi. Nella serie si possono chiaramente individuare articolazioni precise: la donna, l’uomo, la coppia, i bambini, gli animali, i rituali, il mondo della cultura, i personaggi celebri, il paesaggio, la natura. L’attenzione alla distruzione dell’esperienza diretta nasce in questo lavoro, che non vuole dirci di invadenze delle immagini negli ambienti di vita, quanto piuttosto porsi come analisi tra il vero e il falso, tra quello che siamo e l’immagine di quello che dobbiamo essere; operare una lettura nell’occultamento e nella negazione del vero. La distinzione sembra in effetti sempre più difficile, e apparentemente impossibile andare oltre l’immediato visibile. … Il tema della realtà e della finzione dell’essere e del sembrare, sottolinea come la distruzione dell’esperienza ci imponga un impegno quotidiano e come il recupero dell’esperienza debba necessariamente effettuarsi partendo proprio dall’avere coscienza dell’avvenuta distruzione”. Per Ghirri quindi il compito del fotografo “è quello di verificare come sia ancora possibile desiderare e affrontare la strada della conoscenza per poter infine distinguere l’identità precisa dell’uomo, delle cose, della vita, dall’immagine dell’uomo, delle cose, della vita”. (…)

Alla ricerca dell’originale perduto

A partire da questo successo internazionale, Ghirri si dedica alla retrospettiva di quasi settecento immagini, a cura di Arturo Carlo Quintavalle e Massimo Mussini, presso il Centro Studi e Archivi della Comunicazione dell’Università di Parma, ed esposta nelle scuderie del Palazzo della Pillotta. Nel meditato riesame di quanto operato sino a quel momento, nella salvaguardia e nella definitiva sistemazione critica di tutte le sequenze realizzate sino al 1979 attraverso i testi redatti per l’occasione, Ghirri chiude con Still Life il periodo della ricerca attraverso i meandri del mondo ridotto a immagine, all’interno del labirinto della nuova creazione.
Abbiamo creato una seconda natura a somiglianza della prima”, testimonia il poeta Czeslaw Milosz, “tuttavia… ciò che sappiamo sulla Natura non depone a suo vantaggio. La nostra non è peggiore”10, e in questa matura consapevolezza, Ghirri è ormai pronto alla rappresentazione dell’immagine del mondo in tutta la sua complessità e contraddittorietà. Nei sogni come nei ricordi messi in scena e rievocati dentro lo studio Polaroid di Amsterdam, nel metrò e nel Jardin des Plantes di Parigi, attraverso la ritrovata unità dell’uomo e della donna stretti per mano verso l’orizzonte dell’Alpe di Siusi, Ghirri si mette in cammino “alla ricerca dell’originale perduto” e comincia “un viaggio nel quale si fondono storia e geografia, nel quale si mescolano nozioni collettive e personali… un viaggio nel perenne immutabile accompagnato da un vivo desiderio del miracoloso”. (…)

Foto in Mostra a Milano – @Lucia Laura Esposto – III CMCMilano Luigi Ghirri. Nostalgia del futuro. L’immagine necessaria

Per ritrovare la strada di casa

Grazie agli incarichi successivi offerti dagli architetti Pierluigi Nicolin, Paolo Zermani, Paolo Portoghesi, Alberto Ferlenga, Aldo Rossi, da cantanti come Lucio Dalla e Giovanni Lindo Ferretti, e poi dalla Biennale di Venezia, dalla Triennale di Milano, dal Ministero della Cultura di Francia e da altre prestigiose istituzioni nazionali e straniere, Ghirri compie un lungo viaggio nel mondo contemporaneo di cui Paesaggio Italiano, Il profilo delle nuvole, Viaggio in un antico labirinto costituiscono un unico, appassionato diario che si interrompe solo il mattino della sua morte, che lo coglie il 14 febbraio 1992 nella grande casa acquistata l’anno precedente a ridosso dell’antica chiesa di Roncocesi.
I monumenti della storia e i luoghi della geografia, fatti precipitare dal turismo e dagli stereotipi della comunicazione di massa in desolati luoghi comuni, frammenti di nessuna storia e di nessuna geografia, nella nuova unificante visione datane da Ghirri nell’ultimo febbrile periodo d’attività, diventano “un insieme di punti da unire fra di loro per tracciare un itinerario possibile, come fossero i sassi di Pollicino, per ritrovare la strada di casa”.
Una casa, grande come il mondo, edificata insieme dalle pietre e dai mattoni dei costruttori e dai sentimenti e dalle rappresentazioni di tutti coloro che vi sono vissuti e vi vivono oggi tra “intere costellazioni di significati e rimandi, eco e miscugli di diverse forme ed etnie”17. Una casa cui può dar forma solo la luce e, nella luce, la fotografia, attraverso la sua meravigliosa invenzione ritrovata da Luigi nella camera oscura del castello di Fontanellato, dove da più di quattrocento anni si ripete “al sorgere del sole questo miracolo: osservare come la luce che gradualmente si stende sul piazzale disegna i contorni, accende i colori, le cose, le persone fino alle nuvole in cielo appena dietro le case”.