Tra Est e Ovest. In cammino con don Francesco Ricci

Un sacerdote che ha costruito ponti nell’Europa orientale quando c’era ancora il Muro di Berlino. Un uomo vero, un cristiano tenace, un appassionato a Cristo e al movimento di Comunione e Liberazione. Nelle sue vene scorreva sangue caldo, altro che tiepidezza. Eppure, quando la realtà lo imponeva, vestiva i panni del fine tessitore, dell’abile diplomatico. La testimonianza di chi lo ha conosciuto e con cui ha condiviso alcuni di quei difficili ma fondamentali viaggi oltrecortina. A trentadue anni dalla morte una riflessione necessaria. Una pagina di storia vista dall’interno


21 luglio 2023
Avventura umana
di Walter Ottolenghi

don Francesco Ricci @DFR

Da tanti anni don Francesco Ricci non è più con noi. Trentadue anni dal suo dies natalis sono trascorsi da poco (30 maggio). Non un anniversario “tondo”, scandito dai lustri o dai decenni, ma in qualche modo speciale per tanti suoi amici che hanno visto quest’anno compiersi un loro cammino ridando vita alla memoria della grande avventura umana che con lui hanno percorso sulle strade della cosiddetta Europa dell’Est a partire dagli anni ’60 del ‘900. Quest’anno abbiamo potuto rivivere, alla luce di quello che siamo oggi, il senso di quanto abbiamo con lui condiviso con la pubblicazione di un volume che raccoglie memorie, riflessioni e giudizi su quel periodo, su quel pezzo di Storia che abbiamo visto svolgersi sotto i nostri occhi.
Non c’è, quindi, spazio per commemorare, ma per un’azione di grazie, quello sì. Nasce dallo stupore di esserci ritrovati a contemplare quanto generato da un’intuizione comune di tanti anni fa.
Senza la compagnia appassionata e insieme discreta di don Francesco non avrebbe potuto crescere e portare frutto, come invece è stato e come, evidentemente, ancora è, visto che a oltre mezzo secolo di distanza da quando tutto è iniziato continuiamo a riscoprirne i segni iscritti da allora in ciascuno che vi ha avuto parte. Fino a farne tuttora oggetto della nostra conversazione, tra noi e con altri.

don Luigi Giussani con don Francesco Ricci, 1969 Forli @Archivio DFR

La precedenza a Est

La genialità e l’ampiezza di orizzonti di don Francesco hanno chiaramente spaziato in dimensioni molto più ampie di quelle del tratto di strada che abbiamo fatto insieme e di questo rendono testimonianza le sue opere e il lavoro di validi biografi.
Non credo sia un azzardo affermare che la Chiesa del XX secolo sarebbe stata qualcosa di diverso senza il grande lavoro di relazioni, di cuciture, di discreta ma incisiva azione culturale, di appassionata testimonianza ed empatia umana di don Francesco e, perché no, anche di un’intensa attività diplomatica sui generis. Certamente sarebbe stata diversa la storia del movimento di Comunione e Liberazione, di cui è stato anima e protagonista, a partire dalla sua Romagna fino ai continenti più lontani.
Quella che abbiamo condiviso è stata la fase iniziale della sua dimensione internazionale, quella che ha riguardato i paesi dell’Europa d’oltrecortina, i rapporti con le comunità cristiane e con gli esponenti del dissenso nei paesi dominati da regimi totalitari comunisti. Pur non avendo condiviso le sue successive esperienze in America Latina, Africa, Asia ecc., credo che l’Europa dell’Est abbia avuto per lui una precedenza non solo cronologica, ma sia stata la risorsa che ha alimentato un concatenarsi di riflessioni, di valutazioni e di giudizi su sé stesso e la propria vocazione, sulla dimensione universale della Chiesa e sul contributo che il carisma del movimento di Comunione e Liberazione vi poteva dare.
Come un cerchio che si chiude, tutto questo arrivava poi a confluire nella consonanza e nella vicinanza al carisma di Giovanni Paolo II, il primo papa slavo della storia. Come una miracolosa conferma alle intuizioni iniziali di un itinerario di vita, arrivata quando questa era ormai già segnata dagli inizi della malattia inesorabile che avrebbe posto una prematura fine alla sua corsa. I suoi ultimi anni furono un lungo viaggio attraverso la sofferenza e la consapevolezza del dono di sé come senso della propria unità col Tutto. “Offro”, diceva nei suoi ultimi giorni.
Il primo scambio di battute che ebbi con lui fu dopo un suo intervento a una “tre giorni” di inizio anno di Gioventù Studentesca, probabilmente nel 1965. L’incipit del suo intervento trattava una citazione di Andrej Sinjavskij, qualcosa come “Ti svegli una mattina e ti accorgi di esserti innamorato della saponetta” (cito a memoria). Meglio delle parole ricordo il tono e l’accento della sua prima riflessione: “Di una saponetta, capisci?”.
Da lì un formidabile itinerario verso il valore dell’esperienza, ultimamente verso il “senso religioso”, che allora non era ancora stato scritto come libro, ma scorreva nelle vene delle nostre conversazioni, a partire dalle lezioni di don Giussani nelle sue ore di insegnamento al liceo e si trasmetteva a tutta l’esperienza di GS.
Evidentemente don Ricci era ricorso alla citazione decisamente “forte” del dissidente russo come una provocazione per attirare l’attenzione sul fatto che la realtà è sempre in agguato con schemi inimmaginabili, ai quali la nostra umanità può reagire in modo sorprendente tanto quanto acuta, profonda e, ultimamente, “amorosa” è la nostra attenzione e con lei il nostro interesse.
Per la platea di adolescenti fu sicuramente uno choc di cui continuare a discutere per giorni, anche e soprattutto al di fuori degli spazi di tempo in comune della “tre giorni”. Per me, ripensandoci, fu un sintetico anticipo della tempra dell’uomo. Il paradosso, la situazione di imprevedibilità estrema, la differenza culturale visti come un’opportunità di verifica della direzione del proprio percorso umano, non certo come fossero un guanto di sfida, inciampi da superare, ma come la domanda di uno sguardo più profondo, una ricerca ultima di significato e di verità.
Emblematica di tutto questo è una parte del contributo di Ludmila Grygiel al nostro scritto:
Nel lontano Medioevo, quando sorsero le prime università nella Penisola Italica, i Polacchi desiderosi di apprendere la sapienza teologica, filosofica e giuridica intraprendevano, a cavallo o anche a piedi, lunghi viaggi verso sud, attraversando le Alpi come Annibale, ma per ben altre ragioni. Questa tradizione si interruppe con la “liberazione” della Polonia da parte dell’Armata Rossa e la costruzione della cortina di ferro. Dopo il 1945 le Alpi furono irraggiungibili, come l’intera Europa dall’altra parte della cortina. Questa chiusura durò fino al 1989. Mentre i governi occidentali accettavano questa situazione, vi furono tuttavia alcuni coraggiosi cattolici che riuscirono a scoprire “i buchi” nella cortina di ferro e a trovare il modo di vincere tutte le difficoltà per poter venire nei paesi sotto la dominazione comunista, non solo attraversando le Alpi ma soprattutto superando numerose difficoltà burocratiche prima della partenza e fastidiosi controlli. Quelli che venivano in Polonia dovevano attraversare due frontiere “difficili”, quella austriaco-cecoslovacca e quella cecoslovacco-polacca. Facevano così un viaggio nel senso opposto di quello dei Polacchi del Medioevo.
Grazie a loro, i Polacchi non si sentivano soli, dimenticati. Bisogna dire che venivano in Polonia anche cittadini di altri paesi dell’Europa occidentale, ma erano persone singole, che non sempre si sforzavano di capire la situazione politica e la vita quotidiana dei Polacchi. In questo senso gli Italiani rappresentarono un’eccezione.
Occorre però porre in evidenza che questi italiani appartenevano al movimento Comunione e Liberazione e che ebbero come antesignano e guida don Francesco Ricci.
Questo sacerdote di grande intelligenza e intuito culturale, nel corso del suo primo viaggio in Polonia decise di “muovere” il Movimento oltre le Alpi. Era il 1966, anno della celebrazione del Millennio del Battesimo della Polonia, celebrazione fortemente ostacolata dal regime comunista, che si spinse fino all’arresto” del quadro della Madonna Nera pellegrinante in tutto il Paese. Tale regime non si vergognò di proibire al Santo Padre Paolo VI di venire a Częstochowa. Don Francesco, viaggiando in treno da Varsavia a Częstochowa con Antonio Setola (in seguito geniale traduttore dei testi dal polacco), dal gesto di una contadina che divise con lui l’unica arancia che aveva (le arance erano pressoché introvabili e i bar nei treni… inesistenti), comprese la forza dell’ethos polacco fondato sui valori cristiani.
Da quel momento decise di conoscere meglio e di far capire ai suoi amici italiani la storia e la cultura polacca “dal vivo” e non dai giornali e dai manuali che simpatizzavano con il regime e trasmettevano ai cittadini occidentali la propaganda comunista.
La vita e l’opera di don Ricci sono poco conosciute non soltanto dagli Italiani ma perfino dagli stessi ciellini, peccato di omissione questo cui varrebbe la pena porre “riparo”. Ma questa è una digressione.
Don Ricci tornò in Polonia nel gennaio del 1968, quando a Cracovia partecipò ad un incontro “clandestino” di un gruppo di studenti nella stanza che padre Adam Boniecki, cappellano universitario presso la collegiata di Sant’Anna, occupava nell’appartamento di Jerzy Turowicz, caporedattore del settimanale cattolico “Tygodnik Powszechny”. Partecipai a questo incontro e rimasi molto colpita dall’attenzione con cui questo magro e altissimo sacerdote ascoltava i racconti sulla nostra attività. Quella sera nacque l’idea di fare uno scambio fra gli studenti polacchi e italiani.
Consegnammo a don Francesco gli indirizzi di alcuni studenti che avevano espresso il desiderio di fare questo scambio. Tuttavia, dopo la sua partenza, non ricevemmo alcun segno di vita. Soltanto nell’estate, all’indirizzo della redazione del mensile “Znak”, arrivò una cartolina da parte di don Ricci in cui scriveva che al momento non poteva venire perché una sua zia aveva subito molti danni nel terremoto in Sicilia…. Solo dopo alcuni mesi venimmo a conoscenza del “terremoto” subito da don Francesco dopo la sua partenza da Cracovia nel gennaio. Mentre si trovava sul treno che lo riportava a Vienna una volta superata la frontiera polacco-cecoslovacca il convoglio era stato fermato e… riportato all’ultima stazione polacca. Lì salirono i soldati del reparto della guardia di frontiera che ricercavano un certo Francesco Ricci. Lui intuì il motivo, si precipitò in bagno e distrusse tutte le carte con gli indirizzi. Così ebbe fine il nostro progetto. Ma non fu l’ultimo.
Don Francesco tornò in Polonia nel 1971 con il passaporto da insegnante. Da allora venne regolarmente e ogni volta si fermava a dormire nel nostro miniappartamento e sempre andava a trovare sia i redattori di Znak e “Tygodnik Powszechny”, sia il cardinale Karol Wojtyła. Non aveva però la possibilità di avvisarci, e così poteva capitare che alla sera, dopo aver messo i figli a letto, sentivo qualcuno bussare alla porta e, mentre aprivo, scorgevo la lunga figura di don Francesco con un pacchetto di caffè in mano (questo era il suo visto di entrata, perché il caffè mi piaceva molto ma era difficile trovarlo). Allora si tirava fuori un letto pieghevole di produzione russa (perciò lo chiamavamo il “letto di Lenin”) che con l’aggiunta di una poltrona poteva contenere la figura del prete più alto del mondo.
Come ho già accennato, don Francesco viaggiava con un passaporto rilasciato ad un insegnante e i nostri figli sapevano che fuori casa non si poteva dire il suo cognome. Lui non poteva né telefonare né scrivere a noi e noi preferivamo non prendere alcuna nota né dei nostri incontri né dei lunghi discorsi notturni. Anche con i suoi amici si facevano tanti incontri. Ricordo, per esempio, un interessante miniconvegno durante il quale confrontammo l’esperienza del Teatro dell’Arca di Forlì con quella del Teatro Rapsodico di Cracovia. Il cardinale Wojtyła aveva messo a disposizione il salone del Palazzo Arcivescovile per le conferenze e la mensa della Curia Metropolitana per i pasti. Non pubblicammo gli atti di questo congresso, né di altri, così che di molti incontri e avvenimenti non è rimasta alcuna documentazione. È invece ben visibile fino ad oggi il risultato editoriale dei viaggi di don Ricci, cioè i quaderni CSEO Documentazione e i libri pubblicati dallo stesso CSEO. Senza questi materiali non si potrebbe oggi scrivere la storia dell’Europa Centro-Orientale dopo la seconda guerra mondiale. Questi testi e incontri hanno senza dubbio influenzato la storia della Polonia e la vita di tanti polacchi ed anche italiani.
Non a caso la sera dell’elezione di Giovanni Paolo II, l’unico che potesse presentare il nuovo Papa al TG1 era Francesco Ricci. Non a caso il primo premier polacco non-comunista, Tadeusz Mazowiecki, nel discorso all’ambasciata polacca in occasione della sua prima visita in Italia, ringraziò don Francesco per esser stato l’unico editore occidentale a pubblicare in un volume i suoi articoli. Don Francesco era stato anche l’unico editore del volume delle omelie del cardinale Wojtyła prima della sua elezione al Soglio Pontificio.

1989 don Francesco Ricci e Padre Josef Zverina a Praga @Archivio DFR

E, più oltre:
Nell’ottava del Corpus Domini, andammo insieme con don Francesco alla S. Messa alla quale partecipavano i bambini della Prima Comunione con l’abito bianco (fra questi nostra figlia Monika). Con il cardinale Wojtyła celebrava l’arcivescovo Luigi Poggi. Dopo la Messa proponemmo a don Ricci di andare a salutare il Cardinale ed approfittando dell’occasione prendere un appuntamento in Curia senza “scomode” telefonate. Lui era un po’ esitante ma per noi era così normale che lo convincemmo. Entrammo in questa stanza, che era camera da letto e ufficio del parroco. Il nostro Cardinale e l’Arcivescovo italiano, in quello spazio così ristretto, erano seduti l’uno accanto all’altro assieme a tutti i sacerdoti, sulle sedie e sul divano-letto del parroco, mentre il tavolo era imbandito con pane, salsiccia e tè. Notammo che Monsignor Poggi era un po’ imbarazzato e non sapeva bene come servirsi a questo buffet. Quando entrammo, noi quattro e don Ricci, il Cardinale si alzò e cominciò a parlare con noi. Dopo un po’ si alzò anche l’arcivescovo Poggi. Don Francesco disse: “Avete assistito a un momento eccezionale nella storia della Chiesa italiana: un Arcivescovo si è alzato di fronte a un semplice sacerdote” …

“Ma da quando gli italiani sono così alti?” Era una bella gara, con don Francesco, quando ci presentavamo insieme, che lui però vinceva sempre per almeno 5 cm. buoni. Ma non era l’unico stereotipo da film neorealista che c’era da superare. La Chiesa italiana, e con lei gli esponenti del suo clero, era vista come un’istituzione degna di rispetto, custode della tradizione e della fedeltà a Roma e, quindi, come una garanzia di continuità e perseveranza per la Chiesa tutta. Ma anche come un’istituzione adagiata in una vita comoda, impigrita da una libertà di espressione garantita, dalla disponibilità di consistenti mezzi economici e da un vasto consenso popolare. Dove l’annuncio del vangelo da parte del clero era stemperato dalle incombenze e, a volte, dalle contraddizioni, imposte dall’attività di mantenimento dell’apparato. Certamente esisteva l’ammirazione e la venerazione per grandi uomini della contemporaneità, in primis Giovanni XXIII e Paolo VI e tanti altri, così come per laici impegnati del calibro di De Gasperi, La Pira o Moro o per intellettuali dei quali si cercava di ricevere informazioni e opere. Nell’insieme, però, l’immagine era quella di un grande corpo, laici compresi, che procedeva per inerzia nel mantenimento delle posizioni acquisite in passato, nella sicurezza che si sarebbero perpetuate. Naturalmente, con un occhio benevolo verso le regioni meno fortunate del mondo, alle quali non si sarebbe fatta mancare la necessaria solidarietà.
L’arrivo di don Ricci scardinava queste visioni e riportava al centro della questione la sua esperienza di coinvolgimento personale nella sfida della contemporaneità, a partire dal mondo giovanile. E all’offerta di un cammino insieme basato sulla conoscenza e l’ascolto gli uni degli altri, accettando la provocazione della diversità di storia, esperienza e cultura come una ricchezza da valorizzare e fare conoscere, anche con i mezzi che la sua geniale creatività aveva realizzato in campo editoriale e tramite la rete di relazioni che andava creando, cioè mettendosi al servizio delle situazioni che incontrava.

Frase scritta da don Francesco Ricci @Archivio DFR

Viaggiare con lui: una scuola di vita

Molto opportunamente, in genere preferiva viaggiare da solo, pur percorrendo solitamente i nostri stessi itinerari basandosi su segnalazioni che gli fornivamo. Se questo gli permetteva di raccogliere informazioni più confidenziali, grazie all’autorevolezza che si era conquistato, allo stesso tempo collocava la nostra attività e le nostre relazioni in un contesto di maggiore serietà, non in virtù di un imprimatur di stampo clericale, ma per la profondità dell’amicizia e del coinvolgimento suo che rivelava lo stesso stile di vita e di relazione nel quale anche noi, più giovani e inesperti, ma non meno entusiasti, ci incamminavamo.
Viaggiare con lui, quando capitava, era comunque una scuola di vita, su come muoversi e adattarsi nelle situazioni più inattese e scomode, su come affrontare le incomprensioni e le spigolosità dell’altro, del lontano e del diverso. E di come aprirsi alla sofferenza altrui, facendosene carico come un’offerta di sé. Esattamente come fece col dolore fisico che lo aggredì nei suoi ultimi anni.
Tutto questo esaltava la sua figura sacerdotale, il suo modo singolare di vivere la propria vocazione, con una tensione che emergeva in continuità. Significativo il ricordo di Růžena Růžičková:
Partimmo da Praga all’inizio dell’agosto del 1968 e a Peschici ci raggiunse la notizia dell’occupazione del 21 agosto della Cecoslovacchia da parte dei carri armati russi: eravamo con don Francesco Ricci. Ricordo quanto ci aiutò a seguire i telegiornali italiani e, contemporaneamente, le trasmittenti libere cecoslovacche che completavano le informazioni italiane. In quei momenti per noi tanto tristi fu il suo continuo incoraggiamento a non perdere la speranza nei momenti difficili che ci diede il sostegno di cui avevamo bisogno. ‘Don Chilometro’ (per i suoi due metri di statura) è diventato per noi un vero padre”.
Questo non vuol dire che le cose con lui fossero sempre facili. Il sangue romagnolo non è acqua e quando c’era qualcosa da discutere gli animi si accendevano facilmente. Però, come succede in famiglia, tra gente che si vuole bene. Tanto in famiglia che, quando uno squattrinato don Ricci si fermava a Milano, gli capitava di dormire la notte sul divano del nostro soggiorno. Altri tempi.
Sul ruolo particolare di don Ricci nell’esperienza dei rapporti con l’Europa dell’Est valgono poi alcune riflessioni anch’esse riportate in “Quando c’era la cortina di ferro – Storie di un destino ritrovato tra due Europe” (a cura di Walter Ottolenghi e Franco Realini, Biblion 2023) e riprese qui di seguito.
Grazie al suo particolare carisma e a quella che oggi definiremmo una maggiore “seniority” culturale don Ricci aveva fin dagli inizi di questa esperienza fondato, con una brillante intuizione unita a uno spirito anticonformistico, il Centro Studi Europa Orientale, con sede a Forlì, la sua città, e da qui – con un gruppo di giovani collaboratori e traduttori – aveva iniziato a pubblicare CSEO Documentazione. Con questo strumento proponeva articoli sia della stampa ufficiale, cattolica o di altre confessioni, che clandestina, dando voce anche alla dissidenza, dei diversi paesi dell’Europa orientale. Quest’opera diede, col tempo, un grande contributo non solo alla diffusione di informazioni generalmente sconosciute su quelle realtà, ma lo fece anche conoscere – e con lui i suoi amici, tra cui noi – come interlocutore sicuro e affidabile in moltissimi ambienti dell’Est. Gli editoriali con cui si apriva ogni numero della pubblicazione erano espressione di riflessioni ispirate direttamente dagli incontri fatti nei paesi dell’Est e dalle esperienze e giudizi maturati dalle personalità che vi vivevano.
L’ambiguità del termine “liberazione” e delle sue declinazioni ideologiche, all’Est come all’Ovest, era certamente uno spunto di interrogativi stimolato da questo lavoro, così come l’esperienza di “comunione” vissuta dalle comunità dell’Est, – costrette dalla repressione a riscoprirne l’essenzialità e, quindi, il valore, – risaltava come garanzia ultima che qualsiasi proposta di liberazione fosse veramente tale. La diffusione, a volte ingenua e confusa, di queste riflessioni contribuì sicuramente – assieme ad altri stimoli – a creare l’humus per un’elaborazione più precisa dei concetti che portarono alla denominazione del movimento, fornendo altresì diversi temi di ulteriore riflessione che ne accompagnarono la crescita. Il “muovere il movimento oltre le Alpi” non aveva, quindi, alcun intento di proselitismo, ma era piuttosto un’azione di allargamento degli orizzonti, di comprensione della contemporaneità senza le banalizzazioni e semplificazioni della vulgata mediologica allora predominante, di arricchimento dei riferimenti culturali del “movimento” e, da lì, del mondo cattolico e, auspicabilmente, della visione corrente in Italia sulla realtà dell’Est.
Allo stesso tempo, la rete di relazioni che si andava realizzando diventava un ambito di condivisione e di elaborazione, un sostegno reciproco nell’affrontare la stagione del post-concilio e la transizione verso le relazioni sociali, economiche e culturali che si accingevano a sostituire, all’Est come all’Ovest, il quadro di riferimento esistente. Da questo la Chiesa, nelle due parti dell’Europa, non doveva e non poteva chiamarsi fuori, come si è poi visto nell’evoluzione del magistero con i pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Che poi, grazie a questi contatti e a quelli successivamente stabiliti, in molti paesi dell’Est si sia sviluppato col tempo un interesse verso Comunione e Liberazione, fino alla nascita di espressioni locali del movimento, è stato un esito certamente non scontato e men che meno pianificato.
Nel tempo presente guardo con stupore a questi cammini paralleli che convergono idealmente in un unum sentire, frutto dello stesso impeto di vitalità posto all’inizio del mio stesso itinerario, impeto che non è proprietà di nessuno, ma che riceviamo come dono. Di questo dono don Francesco si è fatto servitore e tramite e i frutti della sua opera continuano a prodursi e riprodursi. Come dall’albero piantato sulla riva del fiume.

1967 Francesco Ricci a Zagabria