Pascal, la felicità e la morte. L’appassionato interrogativo sul senso della vita
Oltre il giansenismo
Il Centro culturale di Roma ha promosso una serata di riflessione su Blaise Pascal, a ricordo dei quattrocento anni della nascita. La ricerca di Dio, la felicità, la vita, Perché non conviene accontentarsi del proprio destino di morte. Una sana e profittevole provocazione al presente. Una risposta così umana all’umanitarismo piatto. Il filosofo Massimo Borghesi, tra gli intervenuti alla conversazione pascaliana, ha scritto per la nostra rivista questo spiazzante contributo
23 giugno 2023
di Massimo Borghesi
È stata una felice iniziativa, promossa da Massimo Morelli e dal Centro Culturale di Roma, quella di ricordare i 400 anni della nascita di Blaise Pascal all’Institut Français – Centre Saint Louis di Roma[1].
Una commemorazione, moderata dalla giornalista Silvia Guidi, che ha visto la partecipazione di Ana Millán Gasca, François-Xavier Bellamy, Jean de Saint-Chéron, Maria Vita Romeo curatrice dell’Opera omnia di Pascal per Bompiani, e del sottoscritto.
Lo stesso pathos di Kierkegaard
Nato a Clermont Ferrand il 19 giugno 1623 Pascal è stato matematico, geometra, fisico, teologo, filosofo. Una vita intensa che si conclude precocemente nel 1662 a 39 anni. L’ultimo anno di vita aveva fondato a Parigi, con de Roannez, una società per le carrozze, la prima società di servizi pubblici, i cui proventi servivano per l’assistenza di alcuni poveri di Blois. Lui stesso aveva ospitato nella propria abitazione una famiglia povera. Nonostante il suo genio nelle scienze la sua figura costituirebbe solo una breve voce in una enciclopedia se non fosse per i suoi Pensieri, l’opera che consacrerà la sua fama e lo consegnerà alla storia. Un’opera mai portata a compimento il cui tema di fondo era dato dall’apologia della religione cristiana di fronte agli atei ed i libertini. Il testo, così come ci è pervenuto, è dato da un insieme di appunti, di affermazioni folgoranti, scritti su mazzetti di strisce di carta. Una croce per gli interpreti che devono ricostruire il piano complessivo immaginato da Pascal. Siamo così di fronte ad un caso unico, quello della rilevanza di un pensatore fondata su un mazzo di frammenti! Le ragioni del suo successo? Più di una. Innanzitutto il suo stile. Splendido. Noi diremmo: moderno! Non scolastico. Da questo punto di vista tra Pascal e Kant corre un abisso. Si tratta di una modernità particolare perché non basta dire che Pascal non è scolastico. Anche Cartesio non lo è ma la sua prosa non suscita alcuna emozione.
Lo stile di Pascal è vibrante, esistenziale. Occorre arrivare a Kierkegaard per trovare lo stesso pathos. Come suggerisce Romano Guardini, uno stile simile sorge nella storia quando si hanno cambiamenti d’epoca. E’ il caso delle Confessioni di Agostino, nella crisi del mondo antico, di Pascal nel tramonto del Medio Evo. Momenti di crisi, etico-politico-religiosa, in cui il tema del senso della vita viene a costituire la domanda fondamentale. Ciò che turba Pascal è l’umanesimo piatto, quello stoico-epicureo, quello di Michel de Montaigne a proposito del quale scrive: <<Non si possono scusare le sue opinioni del tutto pagane sulla morte… per tutto il suo libro, pensa solo a morire dolcemente e senza tensione>>[2]. Di contro a Montaigne il pensiero di Pascal è tensionante, una categoria che ritorna, significativamente, in papa Francesco. Se il fine della vita è la felicità e la vita si interrompe, però, con la morte allora io non posso immaginare che sia bene così. Non posso accontentarmi del mio destino di morte. E, tuttavia, questo è quanto per lo più accade.
Distrazione. Gli uomini, non avendo potuto liberarsi della morte, della miseria, dell’ignoranza, hanno deciso, per essere felici, di non pensarci[3].
Il divertimento (divertissement), la distrazione, è la terapia di vivere dell’uomo mortale. Terapia inevitabile all’infuori della fede nel Cristo risorto. Pascal non è Heidegger che pretende per l’uomo “autentico” la ossessiva consapevolezza della morte di contro alla distrazione della massa persa nella chiacchiera. Solo i filosofi possono avere questa pretesa mentre l’uomo comune sa che la morte è innaturale. L’uomo comune, nella sua rimozione, è più saggio del filosofo: sa che il pensiero della morte è orribile e può bloccare il desiderio di vivere. Nondimeno anch’egli è stolto poiché non pensando al suo destino, senza mai prendere posizione, corre a capofitto verso il baratro che lo attende. Come scrive nei suoi Pensieri:
Miseria. L’unico sollievo delle nostre miserie è il divertimento, e tuttavia esso è la nostra più grande miseria. Infatti, è soprattutto il divertimento che impedisce di pensare a noi stessi e ci porta insensibilmente alla perdizione. Senza di esso saremmo immersi nella noia, e questa ci spingerebbe a cercare un mezzo più consistente per uscirne. Ma il divertimento ci diletta e ci fa giungere insensibilmente alla morte[4].
L’uomo non può che rifuggire il pensiero della morte e, al contempo, l’uomo deve pensare alla sua morte. Siamo di fronte ad una contraddizione apparentemente insolubile che solo Cristo può risolvere. Personalmente Pascal diffida tanto della filosofia, nella sua dialettica tra razionalisti e scettici, quanto del punto di vista dell’uomo comune.
…Io biasimo egualmente e coloro che prendono il partito di lodare l’uomo e quelli che prendono quello di biasimarlo, e coloro che prendono quello di divertirsi; e io non posso approvare se non quelli che cercano gemendo[5]
La ragionevolezza di cercare Dio
Cercare, lottare per il senso della vita, è l’unica posizione ragionevole. <<Non ci sono che tre categorie di persone: quelle che servono Dio, perché l’hanno trovato; quelle che si impegnano a cercarlo, perché non l’hanno trovato; quelle che vivono senza cercarlo né averlo trovato. Le prime sono ragionevoli e felici; le ultime sono folli e infelici; quelle di mezzo sono infelici e ragionevoli>>[6].
Cercare Dio non è una opzione fideistica, sentimentale, irrazionale. Al contrario si tratta di una ricerca assolutamente ragionevole. Follia è non coltivare questo interesse, vivere “come se” il problema non si ponesse. Umanamente Pascal si schierava dalla parte di <<quelli che gemono sinceramente in questo dubbio, che lo considerano come l’estrema delle sventure e che non risparmiando nulla per uscirne, fanno di questa ricerca la principale e la più seria delle preoccupazioni>>[7].
Verso gli altri, verso coloro che non si curano del problema della vita, mostrava, al contrario, tutto il suo sconcerto. Ai suoi occhi, questa trascuratezza di sé, questo lasciarsi andare in una continua distrazione, costituiva l’enigma più grande.
Ma per quelli che trascorrono la loro vita senza pensare all’ultimo termine della vita […] ho una considerazione del tutto diversa. Questa negligenza su una questione su cui si tratta di loro stessi, della loro eternità, del loro tutto, mi irrita più che non mi rattristi: essa mi stupisce e mi sgomenta: è per me una mostruosità.
Non dico questo per il pio zelo di una devozione spirituale. Penso, al contrario, che si debba avere questo sentimento per un principio umano e per un interesse di amor proprio[8].
Interrogarsi sul proprio destino è amarsi, dimenticarsi è odiarsi. L’uomo non può amare la morte, né riconciliarsi con essa. Deve trovare il senso della vita senza rinnegare la vita. Deve conoscersi, stimarsi, e non semplicemente odiarsi. Con ciò siamo oltre l’immagine del Pascal rigorosamente giansenista, dell’autore per il quale <<Le moi est haissable>>[9], l’io è odioso.
Pascal è più grande del giansenismo che pure lo ho segnato in profondità. La natura porta con sé un desiderio di felicità che contrasta con la morte. La fuga da essa, il divertissement, non è la soluzione. È l’alienazione. Salvarsi non è dis-perdersi, è ritrovarsi. Solo nel Risorto l’esistenza può avere la sua realizzazione.
[1]Confronti con l’infinito. I 400 anni di Blaise Pascal, Institut Français – Centre Saint Louis, 13-06-2023.
[2]B. PASCAL, Pensieri, in Pensieri Opuscoli Lettere, a cura di A. Bausola, Milano 1978, p. 424, fr. 77 [425].
[3]Ivi, p. 482, fr. 213 [121].
[4]Ivi, p. 483, fr. 217 [48].
[5]Ivi, p. 517, fr. 333 [487].
[6]Ivi, p. 532, fr. 364 [61].
[7]Ivi, p. 520, fr. 335 [C. 209-217].
[8]Ibidem, pp. 520-521.
[9]Ivi, p. 454, fr. 136 [75].