Quale futuro per Israele

Crisi di una convivenza

Negli ultimi tempi dalla Terra Santa sono giunte immagini di affollate manifestazioni di piazza, tensioni e violenze tutte interne alla società israeliana. Il motivo scatenante: la riforma della giustizia proposta dal governo del premier Netanyahu. Un campanello d’allarme di un malessere assai vasto. Di uno stato di insoddisfazione frustrante. La situazione è complessa. In gioco c’è molto per l’unico esempio di autentica democrazia in Medio Oriente. Un problema per tutta l’area.
Aiuta a comprendere le cause di quel che sta accadendo evidenziando i numerosi elementi di criticità, Elia Milani, corrispondente Mediaset da Gerusalemme. Che lì vive con la sua famiglia da diversi anni.


5 maggio 2023
Conversazione con Elia Milani a cura di Andrea Avveduto

Le notizie da Israele non sono rassicuranti.

Un altro attentato a Gerusalemme ha infuocato recentemente una situazione sempre più tesa. Le proteste contro il governo Netanyahu, gli scontri in piazza e i giochi politici della Knesset, la frustrazione dei palestinesi e i complessi intrecci internazionali.
La principale causa degli scontri verte sulla riforma della giustizia proposta dal governo Netanyahu. I manifestanti sostengono che minacci la democrazia israeliana, perché darebbe molti dei poteri della Corte suprema al governo stesso. Per Netanyahu invece la Corte suprema avrebbe troppa libertà di intervento anche in materie di competenza dell’esecutivo.
Ne parliamo con Elia Milani, che è il giovane corrispondente di Mediaset da Gerusalemme. Vive nella Città Santa da alcuni anni con la sua famiglia e segue con attenzione gli sviluppi degli ultimi mesi.

Elia, in 12 anni non ho mai visto simili proteste, tanto da mettere in discussione la stessa coesione sociale di Israele. Da una parte l’abilità politica di Netanyahu, dall’altra parte una società che chiede di essere ascoltata. In mezzo le contraddizioni di uno stato che potrebbe implodere. Dall’Italia ci sembra di assistere a un processo totalmente nuovo nella storia dello stato di Israele. È la stessa percezione che avete anche lì?

Assolutamente sì. Quando Herzog dice che dobbiamo evitare l’abisso o la guerra civile, non lo dice a caso. Proprio oggi ha detto:siamo un popolo unico legato dalla storia e dalla speranza. Non dividiamoci”. È naturalmente preoccupato per quello che sta accadendo e si fa portavoce di una situazione potenzialmente molto rischiosa. Le faglie interne a Israele sono diverse e da mesi si inizia a parlare di guerra civile.

Le faglie della popolazione sono numerose e vanno a intaccare la natura di uno Stato che di fronte al mondo si è sempre mostrato forte e soprattutto estremamente unito. Di che fenomeno stiamo parlando?

Le divisioni sono ovunque, di matrice ideologica, etnica e religiosa, e le divisioni sono evidenti anche a livello territoriale. Il centro delle proteste è a Tel Aviv, e coinvolgono laici, askenaziti, Haredim ultraortodossi, soprattutto i lavoratori della classe media senza i quali nel settore dell’Hi Tech Israele non sopravviverebbe.
Tutti si scontrano con Netanyahu, ma anche tra loro stessi. Ora però il dito è puntato principalmente contro il governo. Che ci sarebbero state proteste era chiaro da quando si era insediato. Questa coalizione è la più a destra di sempre e ha risvegliato uno scontro che era diffuso nel sottobosco sociale.

Tra l’altro non possiamo ignorare il fatto che ogni tensione sociale abbia delle ripercussioni economiche. In Israele questo potrebbe avere conseguenze importanti.

Seduta della Knesset per la riforma della giustizia

Infatti, ed è un punto chiave. Per fare solo alcuni esempi, continuano a calare le vendite di nuove case nel mercato immobiliare israeliano. A febbraio scorso sono scese del 41% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno: il maggiore calo dal 2003, quando eravamo nel pieno della seconda Intifada palestinese. È un effetto della crisi. Anche lo shekel ha perso valore a causa di questo governo: prima che si insediasse un euro valeva circa tre shekel, oggi ne vale quattro. Se l’economia si incrina, trovo difficile che anche la politica non cambi immediatamente rotta. Ad esempio, ci sono già delle lamentele sul fatto che gli ebrei ultraortodossi beneficiano di sgravi fiscali imparagonabili rispetto ad altri. Se in tempi normali questo poteva essere accettato, ora diventa più complicato.

Questo è un rapporto di causa effetto che nella Storia ha sempre avuto una sua ragione di forza. Però il dibattito nello stato ebraico è se Israele possa o meno continuare a essere una democrazia.

Dato che Israele non ha una Costituzione, ma solo delle leggi base, la Corte Suprema è l’unico contro altare del governo, un organo che può entrare nel merito di alcune decisioni e fermare il primo ministro. Ovviamente il rischio è quello di una politicizzazione all’interno della Corte stessa, ma è chiaro a tutti che senza la Corte Suprema Israele finirebbe di essere una democrazia e in balia al governo di turno.
Un altro aspetto interessante è ad esempio che nelle proteste gli arabi israeliani non partecipano.

Perché non partecipano?

Perché non sono interessati alle dinamiche di politica interna, e questo succede perché non sono integrati. Se venissi trattato come cittadino di serie B spiegami perché dovrei andare a protestare per una cosa di cui non mi sento parte.

Anche questo è un aspetto del tessuto sociale che potrebbe minare la coscienza granitica di Israele come unica democrazia del Medio Oriente.

Su questo penso proprio di no. Israele ha tanti tantissimi difetti ma fino a oggi è impossibile comparare il livello di democrazia che c’è in Israele con quello dei vicini di casa come Siria, Libano, Giordania, Egitto, Arabia Saudita… qui sui giornali puoi scrivere che Netanyahu è corrotto, mentre se lo scrivi di Abu Mazen a Ramallah dopo due ore arrivano i servizi palestinesi e ti fanno “fuori”.

Ma allora perché i sostenitori di Netanyahu dovrebbero sostenere una riforma della giustizia che impone – di fatto – alcune limitazioni alla democrazia?

Non dimentichiamo che tra i sostenitori di Netanyahu ci sono anche i coloni, settori della società spostati anche molto a destra. Ci sono anche alcuni più moderati ma…

Il leader della setta ultraortodossa anti-sionista “Neturei Karta” ribadisce la sua opposizione allo Stato di Israele

Bisogna comunque trovare un accordo.

Sì. Bisogna trovare un accordo perché è innegabile che la Corte Suprema negli ultimi anni è intervenuta politicamente su questioni delicate. Ma qual è il ruolo della Corte suprema? È vero che è stabilito, ma non c’è una Costituzione che ti spiega esattamente qual è il ruolo di ognuno. Già Ben Gurion sapeva che era complesso mettere d’accordo tutti e aveva rimandato la Costituzione a data da definirsi…

Costituzione che però non è mai stata scritta. E se venisse approvata la riforma della giustizia, quali sarebbe gli scenari possibili?

Consideriamo anzitutto il fatto che gli Stati Uniti continuano a chiedere di fermarla perché ci deve essere il consenso da parte di tutti per fare una riforma di questo tipo. È difficile fare previsioni, però potrebbero facilmente ridurre l’aiuto militare e questo sarebbe un aspetto che Bibi non può ignorare. Sottolineo anche che ci sono membri dell’esercito schierati contro la riforma e Netanyahu sa di avere contro anche i vertici di intelligence.
Gli ex capi del Mossad hanno detto chiaramente alla stampa: “questa riforma è da fermare”. Inoltre è la prima volta che c’è una spaccatura dentro l’esercito e l’esercito – lo sappiamo – è la colonna vertebrale di Israele.

Mi sembra che ultimamente la spaccatura della società su questo tema sia più rilevante del conflitto con i palestinesi.

Beh, certo. Premesso che in Israele il conflitto coi palestinesi interessa solo nel momento in cui c’è un attentato, già durante le ultime cinque elezioni non se n’è quasi mai parlato. Il problema della sicurezza è molto più ampio, internazionale.

Però Israele ha sempre avuto bisogno di un nemico per emergere e portare avanti certe politiche, anche interne.

Il nemico di oggi però non sono i palestinesi. Il nemico è l’Iran.
Nell’80% dei discorsi pubblici di Netanyahu si fa sempre riferimento alla minaccia dell’Iran, al fatto che i suoi alleati in Siria ed Hezbollah in Libano vogliono distruggere Israele. In questo senso Netanyahu è abilissimo a far trasparire l’immagine di “mister sicurezza” e su questo aspetto è riuscito a mettere insieme tutti, anche per risolvere problemi interni. Ma la spaccatura nella società israeliana c’è sempre stata e adesso non si può davvero più ignorare.

Israele è sempre stato bravo a difendersi nell’arco della sua storia. Solo mi chiedo adesso come faccia a proteggersi da sé stesso.

Ecco, questa è una questione molto interessante, che fa scoppiare di gioia tutti i suoi nemici perché in fin dei conti sostengono che il progetto sionista non può durare più di tanto: sarà una guerra interna a distruggerli. Questa è la tesi che stanno portando avanti.

Che questa crisi venga strumentalizzata e cavalcata era da immaginarselo. Lo capisco. Faccio più fatica a comprendere come possa una società tenere il suo tessuto sociale in queste condizioni.

Come facciano due città come Gerusalemme e Tel Aviv a stare assieme me lo chiedo da anni. Sono due città diversissime, abitate da gente diversissima. Il punto è che se anni fa queste differenze potevano essere una ricchezza, adesso stanno emergendo tutte le fragilità di una convivenza. Anche il fatto del popolo come scelto da Dio, è un aspetto che non è più scontato, perché a un israeliano interessa fino a un certo punto. Però gli haredim fanno in media sei figli a famiglia, e secondo alcuni studi nel 2050 un israeliano su tre o poco più sarà ultraortodosso. Come fanno a stare assieme? Negli anni passati vivevano in uno stato che funzionava bene con un’ideologia molto forte, ma conservando un’idea dello stato comunque profondamente diversa. Cosa succederà è difficile da prevedere, e se prima con il governo di Bennet c’erano diversi partiti che rappresentavano fedelmente la società, adesso non è più così. E la rottura è sempre più evidente, complicata da un’economia anch’essa più fragile rispetto al passato.