Emmanuel Carrère: il mistero del bene sconfigge i demoni

Il processo del secolo

Lo scrittore francese ha voluto assistere a tutte le fasi del processo per gli attentati a Parigi del 13 novembre 2105: 131 morti, oltre trecento feriti. Per comprendere. Quegli appunti divenuti articoli settimanali sono stati raccolti e perfezionati in un libro appena uscito dal titolo “V13” (Adelphi). Un’esperienza umana e professionale lunga nove mesi che ha cambiato la sua vita. Un racconto preciso, dettagliato, pieno di storie, zuppo di lacrime. Con l’impossibile che può diventare possibile


7 aprile 2023
di Enzo Manes

Emmanuel Carrère

Il mistero del bene non è mai esperienza banale. Lascia di stucco e scompagina perché fiorisce, si fa largo, nel quotidiano affollato di fiori del male. Diciamolo: la sensatezza della vita è nella certezza del fiorire di quel bel fiore. Emmanuel Carrère, scrittore francese a cui non piace giocare facile, ha messo in un libro (V13, Adelphi, 2023, traduzione di Francesco Bergamasco) nove mesi passati in un’aula bunker parigina – dal settembre 2021 al giugno 2022 –  per raccontare, di settimana in settimana sul Nuovelle Obs e altri quotidiani sparsi per l’Europa, il maxiprocesso per gli attentati serali di venerdì 13 novembre 2015 avvenuti nella capitale francese: centotrentuno morti e oltre trecentocinquanta feriti. E in quell’impegno, assunto quasi come esigenza per provare a comprendere, ha fatto conoscenza con il mistero del bene. Che l’ha sorpreso nel dramma, nel trauma del processo del secolo, un processo per la Storia. Nel libro, a pagina 64, ecco il pensiero di Simone Weil a indirizzare lo stupore avvertito da Carrère: “Il male immaginario è romantico, romanzesco, vario; il male reale incolore…desertico, noioso; il bene reale è sempre nuovo, meraviglioso, inebriante”. Carrère trattiene le parole di Weil è si lascia trasportare, per l’appunto, da uno stupore incontrato per davvero: «Si parla troppo e con troppa compiacenza, del mistero del male. Essere disposti a morire per uccidere, essere disposti a morire per salvare, qual è il mistero più grande?».
Quel venerdì 13 febbraio 2015 in diversi punti di Parigi il mistero del male e il mistero del bene entrano in conflitto, subito e più evidente il male. Tre  gruppi di un commando di terroristi dell’Isis prendono d’assalto la discoteca Bataclan affollata di giovani per un concerto di rock metallico; scatenano pallottole di kalasnikov su bistrot dove si conversa ai tavolini; provano ad entrare allo Stade de France pieno zeppo per l’amichevole di calcio tra la nazionale di casa e gli storici rivali della Germania con l’obiettivo di farsi saltare in aria in mezzo alla folla. Per una banale questione di ritardo non centreranno l’obiettivo, allora azioneranno la cintura esplosiva all’esterno. Al Bataclan, il vertice della violenza: è un tiro al bersaglio distruttivo e autodistruttivo. Gli uomini al servizio del califfato uccidono con un certo gusto, dirà un sopravvisuto, e poi si immolano. In nome di un dio che – convinzione in loro accesa dai capi dell’autoproclamatosi Stato islamico in Siria e Iraq – dovrebbe apprezzare.

Disegni dal Processo

‘Okay, resto con te’

Carrère divide il libro in tre parti per ricostruire quel che è avvenuto in nove mesi di processo cui ha assistito per la quasi totalità delle convocazioni: le vittime, gli imputati, la corte. Un groviglio di voci, di storie, di sorprese, di stonature. Commovente e straziante la parte occupata dal coro delle vittime, sopravvissuti e parenti di chi non ha potuto nulla per resistere all’offensiva del male, dei demoni venuti dalla periferia di Bruxelles
Carrère segue, annota, a casa metterà giù e racconterà, come sanno fare i narratori bravi. Non si fa prendere la mano, si fa prendere da quel che sta vivendo. Da quel che vede e ascolta. Non è un cronista di giudiziaria, lui; è uno scrittore, cioè un intellettuale che sa come narrare senza perdersi nulla, acquisendo qualcosa in ogni rigo che diventerà pagina; è il dettaglio che si allarga e pretende attenzione: è la letteratura che non scansa la vita. Le testimonianze le racconta con una giusta distanza che non è distanza di sicurezza: si ritrae per essere più vicino, più attento, più in sincrono con quell’irripetibile presente.
Carrère guarda in faccia, pensa, appunta nel suo blocco. Quell’aula gli diventa familiare, lo attraversa, quasi lo risucchia ma senza farlo precipitare. Quell’aula dove va in scena la giustizia di un Occidente che sarà pure stremato ma comunque ancora aggrappato alla virtù dell’imperfetto stato di diritto. Quell’aula dove i sopravvissuti – che non tollerano di avercela fatta in quella notte di carneficina: dieci minuti per uccidere novanta persone e ferirne all’incirca duecento – nel loro testimoniare introducono una diversità che colpisce.
Lo scrittore francese che è lì, totalmente conquistato, poi può scrivere così, a pagina 63: «In genere le storie di naufraghi, catastrofi, e fuggi fuggi rivelano il peggio dell’uomo. Vigliaccheria, ciascuno per sé, lotta all’ultimo sangue per un posto sulle scialuppe di salvataggio del Titanic. Qui, molto poco. A meno che non si pensi che fra i superstiti del Bataclan si sia formata più o meno consapevolmente una narrazione collettiva di nobiltà e fratellanza – il che è possibile – si resta colpiti, un’udienza dopo l’altra, dagli esempi di aiuto reciproco, di solidarietà, di coraggio. C’è Bruno, che non si limita a proteggere Edith, una perfetta sconosciuta, con il suo fisico massiccio ma, quando hanno la possibilità di uscire, le dice: ‘Forza, ce ne andiamo’. ‘Non posso muovermi’ risponde lei e lui, placido: ‘Okay, resto con te’».
Ecco il mistero del bene in un dialogo quasi surreale mentre su loro due scendono coriandoli di carne umana dei terroristi che si sono fatti esplodere e delle vittime innocenti.

Non avrete il mio odio

Tutta la prima parte è segnata da racconti di sopravvissuti e di genitori che testimoniano la propria estraneità alla logica dell’odio (Antoine Leiris, un giovane la cui moglie è morta al Bataclan, ha scrtto un libro intitolato “Non avrete il mio odio”). A pag 56: «Lamia avrebbe lasciato questo mondo nel modo più violento che si possa immaginare. È talmente incomprensibile, dice Nadia.
Pensare che quelli che l’hanno uccisa avevano la sua età. L’età di tutti loro tra i venticinque e i trent’anni. Che sono stati accompagnati a scuola tenendoli per mano, come lei accompagnava Lamia, tenendola per mano. Erano dei bambini che venivano tenuti per mano. Quando dice queste cose il silenzio in aula è spesso (…). Alla fine Lamia dice: ‘Adesso, avvocati della difesa, fare il vostro lavoro. Fatelo bene. Lo dico sinceramente’».

Carrère si domanda se sia più difficile essere il padre di un assassino o di un assassinato.

Lui prova soprattutto ammirazione per i padri e le madri delle vittime, arriva a scrivere che si identifica con loro, riconoscendo la propria incapacità a comportarsi allo stesso modo. E quanto venga toccato da quei racconti, lo confessa a pagina settanta: «Secondo un aforisma crudele, abbiamo sempre coraggio a sufficienza per le sofferenze altrui. È vero, e tuttavia anche tra le nostre file, quelle degli osservatori che dopotutto si limitano ad ascoltare e trascrivere, stiamo sempre peggio. Dormiamo sempre peggio. Abbiamo incubi, diventiamo irritabili. E una volta tornati a casa, sempre più spesso scoppiamo a piangere di punto in bianco (eppure Dio sa se ho la lacrima facile)».

La mamma e Valeria Solesin, italiana uccisa a Parigi

Gli imputati non hanno niente da dire, niente

La seconda parte di “V13” è occupata dagli interrogatori e dai silenzi degli imputati davanti alle domande dei rappresentanti della giustizia: quattordici uomini in tuta sportiva alla sbarra nella grande scatola di legno bianco (Carrère descrive con questa espressione quell’aula di tribunale nell’Île de la Cité fatta costruire appositamente), per lo più marginali, minori, complici, essendo morti negli agguati la quasi totalità del commando dei dieci terroristi. La persona più attesa è Salah Abdeslam, il terrorista che, a differenza del fratello Brahim, non si è fatto esplodere durante l’azione.
Sopravvissuto a sé medesimo. Le ragioni per cui non l’abbia fatto rimarranno, nella sostanza, senza risposta. Carrère scrive a pagina 146: «Le cinque settimane di deposizione delle parti civili ci hanno sconvolto, devastato, e ciò che riaffiora a quasi quattro mesi di distanza sono i loro volti messi a nudo dalla tragedia. E gli imputati, dopo tutto questo? Pensavamo che i loro interrogatori sarebbero stati avvincenti, in realtà non lo sono granché, perché non hanno niente da dire. Insomma, niente… (…) Questo non significa che non siano interessanti. Significa che ciò che è interessante in loro, ciò che in ogni caso lo è per me, non appartiene al piano individuale ma a quello della Storia (…). Quel che mi interessa è il lungo processo storico che ha prodotto questa mutazione patologica dell’Islam». Con gli interrogatori degli imputati si sono ricostruiti i fatti che hanno portato a quel V13, ovvero al venerdì 13 novembre che, per ironia della sorte, è la giornata dedicata alla gentilezza.
Alcune certezze, diverse zone d’ombra. Nella pratica sono venute a confermarsi falle evidenti nell’attività di contrasto degli apparati di sicurezza sia in Francia e sia in Belgio. La sentenza (il racconto di requisitorie, arringhe e altro riempie le pagine della terza parte) , cosa nota, ha portato alla condanna all’ergastolo ostativo per Salah Abdeslam, il decimo terrorista del commando. Per gli altri, pene a scendere. Fino a qualche assoluzione per figure ritenute assolutamente marginali Carrère, riflettendo sulla sentenza, l’ha trovata ispirata più all’esemplarità che alla proporzionalità. Forse, come scrive, ne aveva bisogno il Paese, ne aveva bisogno l’opinione pubblica.

Salah Abdeslam. l’unico terrorista sopravvissuto, al Processo

«Il nostro processe è finito»

Pagina 247: «Mezz’ora dopo la sentenza, certo dicutibile ma non scandalosa, siamo già passati ad altro. Ci troviamo in cima alle scale dove nelle pause dell’udienza abbiamo trascorso tante ore a discutere, fumare, piangere. Giù sul boulevard ci sono trenta furgoni dei reparti antisommossa. Fra qualche ora se ne andranno, si potrà attraversare liberamente l’Île de la Cité che è rimasta bloccata per quasi un anno. Non so quante volte in questo anno gli amici mi hanno detto: hai veramente rotto le palle con questo tu processo che blocca la circolazione. Il mio processo, proprio così. Ce ne accorgiamo stasera, tutti, anche quelli che come me erano soltanto degli osservatori: questo è stato il nostro processo, e ora è finito».   Ma c’è uno scandalo che emerge inaspettato nella coda – Carrère ne dà conto nelle pagine conclusive – che appartiene a quel sottotraccia di speranza che eppure scorre, a quel mistero del bene che non demorde, che non salta in aria. Quasi se ne vergogna, l’autore, a descriverlo, essendone stato parte consapevole fino a certo punto. Toglie il respiro talmente è vero quel che succede e gli succede. Una meraviglia, usa proprio questa parola. Verrebbe da riportare ora, non osiamo, per rispetto di chi sta leggendo. E di quel mistero del bene che va incontrato grazie all’esattezza della scrittura di Carrère. Il V13 non è stato solo una discesa negli abissi. Le storie, tutte, hanno avviato la risalita. Come quella di Georges Salines – la cui giovane figlia è morta quella notte –  che ha cercato un rapporto, un dialogo con il padre di uno dei terroristi. Dal loro incontro ne è nato poi un libro. Un libro quasi impossibile. Anche misterioso. È la cultura dell’incontro, estrema ridotta che resiste. All’abisso del nulla esistenziale che può essere annullato.