La Russia che sarà

Il dopo Putin

Per noi la guerra ha preso una china assai pericolosa: l’ impotenza a capire. Si avverte una sorta di rassegnazione al corso tragico degli eventi. Con dibattiti sterili e interessati. Senza che emerga il desiderio di lavorare a una pace vera. Eppure, il mondo che verrà, cioè quello post fallimento dell’attuale modello di globalizzazione, non può ritenersi soddisfatto dell’eventuale disfacimento della Russia. Perché quello è un grande Paese che è preferire rimanga indipendente (ovviamente senza Putin) e non oggetto di mire tipo quelle cinesi. Un mondo senza Russia è un’anatra zoppa. Ma chi sta lavorando oggi, per davvero, a un realistico quanto ambizioso scenario di pace che duri nel tempo? Domanda imbarazzante nell’occidente dei talk show


7 aprile 2023
di Walter Ottolenghi

©Pierpaolo Mittica – Magnitogorsk, Russia DSC2147

Il tragico film della guerra si srotola davanti al nostro sguardo impotente. Impotente nell’agire e impotente nel capire, con la prima impotenza che fa sempre più ombra alla seconda, alla più importante, in fondo. Nel nostro ristretto cortile d’Europa l’orizzonte dell’agire si limita a un grottesco dibattito sul mandare / non mandare armi agli aggrediti e ad invocare un risolutorio intervento “delle diplomazie”, immagino delle grandi potenze planetarie sollecitate a scendere in campo dai diktat dei nostri talk show in prima serata. Questa ristrettezza di campo dell’agire sembra frutto di una frustrazione che deriva dalla nostra marginalità, assieme al resto d’Europa, nel ruolo di interlocutori del dibattito internazionale. Alzare il volume del rumore della polemica serve spesso a mascherare l’inconfessabile mancanza o confusione di idee, ma ha come effetto anche quello di rendere più difficile il lavoro di comprensione dei per come e dei perché, di coprire la voce flebile di chi potrebbe tentare un’analisi più profonda della genesi e dello sviluppo degli eventi e provare a trovare il bandolo della matassa.

La scelta di campo

Per avviare un ragionamento sul tema comincerei col disinnescare la crucialità del dibattito sull’invio di armi. Da quanto è dato di capire sembrerebbe che l’operazione di svuotamento dei magazzini dell’usato da parte dei paesi dell’Europa occidentale abbia un impatto piuttosto marginale sugli sviluppi del teatro bellico e, men che meno, sulle conseguenze in termini di prolungamento della guerra. Importantissimo, invece, il suo valore come scelta di campo a fianco degli aggrediti, con il conseguente isolamento politico dell’aggressore e il chiaro messaggio su come potrebbero configurarsi le relazioni internazionali, anche sotto il profilo economico e culturale, tra Russia ed Europa in un futuro nuovo assetto geopolitico. Chiaramente il supporto all’Ucraina, per quanto riguarda armamenti e logistica, è a carico soprattutto di USA, Polonia e Gran Bretagna. La capacità di influire sulle scelte di questi paesi da parte degli altri partner europei è piuttosto scarsa, data la prolungata riluttanza di questi ultimi a mantenere gli impegni di investimento in materia di difesa, che ne ha affievolito ormai la voce in capitolo.
È possibile, comunque, portare un contributo significativo a un disegno di pace? Dipende. Le “paci”, infatti, non sono tutte uguali. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. Non è un discorso nuovo. Un altro luogo comune ci dice che è più difficile vincere la pace che vincere la guerra. Ci sono paci che sono solo apparenti e non fanno che preparare inevitabilmente il terreno per catastrofi ancor più gravi. La storia ne è piena. Per contribuire davvero alla pace, quindi, bisogna sapere che pace si vuole e capire se ha i presupposti per non essere travolta da eventi successivi ancora più tragici di quelli che si pensava di aver composto.
E noi, quando chiediamo la pace, anche con le nostre preghiere, in quale pace speriamo? Non credo che sia lecito esimersi perlomeno dalla domanda, perché la pace, che comunque prima o poi verrà, dipende anche dalle risposte che gli uomini del nostro tempo si daranno al quesito. Noi tra loro.

San Pietroburgo, Venezia del Nord, 354 ponti, molti semovibili sulla Neeva, dal Volga al Baltico, verso i porti d’Europa, costruiti in epoca sovietica

Russia: Rebus, mistero, enigma

Data la centralità della “questione russa”, ossia della perdurante instabilità del collocamento della Russia nello scenario geopolitico globale, credo anche che sia impossibile immaginare una pace vera senza immaginare contemporaneamente il ruolo e il posizionamento della Russia nello scenario internazionale. È, infatti, questa instabilità la causa ultima degli eventi bellici cui stiamo assistendo.
Un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma. Così Winston Churchill definiva la Russia e così probabilmente appare ai suoi stessi governanti se hanno bisogno di agitare il tema della minaccia esterna per serrare i ranghi di un paese che non riescono ad interpretare nelle sue aspirazioni e nei suoi bisogni. Perlopiù prendendosela con paesi dove si pensa di vincere facile, tipo “Spezzeremo le reni alla Grecia”, con le sorprese che l’ironia della storia tiene in serbo. Non si capisce, infatti, propaganda a parte, la motivazione strategica di certe mosse azzardate. Conquistare uno dei pochi paesi confinanti dove i russi non erano visceralmente odiati per farlo passare nella vasta schiera di tutti gli altri vicini che li vedono come il fumo negli occhi? Con quale vantaggio? Avvicinare le basi militari ai confini della NATO? Con alle spalle qualche decina di  milioni di potenziali partigiani tosti e agguerriti?
Oppure tentare il bluff con l’occidente, puntando sulla disgregazione politica di un’Europa impaurita che finisce per frapporsi tra est e ovest come un cuscinetto di nuova neutralità? Questo sembrerebbe confermato dalla pressione propagandistica e dai toni minacciosi nei confronti dei paesi considerati più influenzabili, tra cui sicuramente l’Italia, dove sono stati rispolverati i vecchi arnesi della propaganda sovietica.
Calcoli approssimativi, carenza di intelligence, reticenze e menzogne interne sullo stato di preparazione delle forze armate? Forse un po’ di tutto questo, ma soprattutto una visione velleitaria e confusa di dove condurre quello che rimane comunque un grande paese e di come risolverne le grandi incongruenze e contraddizioni: l’arretratezza, le disuguaglianze, la povertà delle periferie e delle campagne, le carenze del sistema sanitario, l’alcolismo, la criminalità, la denatalità e il crollo demografico, le spinte centrifughe delle etnie minoritarie eccetera. Un calderone potenzialmente esplosivo.
Paradossalmente l’occidente dovrebbe forse temere più queste debolezze della Russia che la sua questionabile potenza militare. Un collasso della Russia creerebbe un buco nero tra Europa e Asia più deleterio di una velleità offensiva nei confronti dell’Europa, anche se in questo momento il fronte ucraino rappresenta un’inevitabile emergenza.

Putin non è Gorbacev

Il rischio di dissoluzione della Russia è molto elevato, ma non ad opera delle armi americane, come sostiene la propaganda putiniana. Questo processo potrebbe essere per certi versi simile all’autoimplosione dell’Unione Sovietica, ma se ne distinguerebbe per una più grossolana visione strategica.  La mossa di Gorbacev nasceva dopo decenni di studi e di analisi da parte di una classe dirigente che aveva perfetta consapevolezza che l’impostazione ideologica del regime avrebbe portato a un totale suicidio economico e sociale del paese, ormai sull’orlo del baratro. Solo il marketing dei fornitori del Pentagono riusciva a dipingere come una minaccia militare un esercito che già allora era moralmente e tecnologicamente allo sfascio. La perestroika fu il tentativo, tutto sommato riuscito, di guidare in modo non violento l’inevitabile drastico cambiamento. Dopo trent’anni sembrerebbe di essere a punto e a capo, perché la classe dirigente si è progressivamente involuta nelle spire di una cleptocrazia basata sulla rapina delle risorse naturali, facendo decadere la struttura economica se non a livelli di terzo mondo a quelli di un emirato o di un paese andino qualsiasi. A questo punto il passaggio al regime autocratico e autoreferenziale diventava quasi inevitabile. Un regime che per tenersi insieme ha dovuto dotarsi velocemente di una base ideologica strumentale alla sua sopravvivenza, dando vita a un patchwork unico di sciovinismo neoimperiale, clericalismo e culto della personalità. Ingrediente fondamentale di questo disegno, comune a tutti i regimi così concepiti, è l’individuazione del nemico esterno. La minaccia che viene da fuori, assieme alla paura che viene da dentro, sono gli espedienti estremi per tentare di tenere insieme una società allo sbando, prostrata e delusa. L’attacco all’Ucraina sembra essere l’estremo disperato tentativo di questa strategia disastrosa, la conseguenza di un processo di dissoluzione già da tempo in atto più che una sua causa o una reazione a una fantomatica minaccia neonazista!

Mosca percorsa dalla Moscova

Una pericolosa replica

Nell’insieme la situazione attuale sembra una replica degli ultimi decenni dello zarismo: l’avventurismo sconclusionato di Nicola II con i suoi rovesci militari, la feroce repressione interna e l’incapacità di elaborare una via d’uscita minimamente costruttiva ai disagi del suo paese. Una serie di giocate perdenti il cui unico filo conduttore sembra un cupio dissolvi che ricorda gli eroi negativi della narrativa dostojevskiana. Sappiamo come andò a finire: la pressione interna sfociò in una ribellione popolare che portò ad un regime parlamentare durato pochi mesi, spazzato via da un colpo di stato da parte della componente bolscevica delle forze armate capeggiate da Trockji, mentre un timido Lenin ne attendeva gli incerti esiti alla scrivania del suo ufficio. Evento curiosamente passato alla storia con l’inverosimile nome di Rivoluzione d’Ottobre.
Anche questa volta l’esito della storia sarà un taglio al groviglio gordiano per opera delle forze armate? Possibile. Come allora il rischio è che il cambio del bastone di comando non porti sostanziali differenze negli esiti dell’azione di governo. Le carestie e le avventure militari continuarono ad intrecciarsi anche dopo il ’17 e il potere dei soviet fece da schermo alla sostanziale incapacità dei nuovi capi di esercitare il potere in modo molto diverso rispetto all’assolutismo zarista. L’autoreferenzialità e l’isolamento culturale della classe dirigente, la sua incomprensione delle dinamiche del mondo di allora, infilarono la Russia in una nuova spirale di disperazione. Nonostante la vittoria della Seconda guerra mondiale restarono nel paese le debolezze endemiche di sempre, irrisolvibili da parte di un regime occupato soprattutto dal difendere la propria inamovibilità, a costo di strangolare la creatività e la genialità del suo popolo, incapace di creare relazioni internazionali basate su una costruttiva fiducia, perso nell’impossibile sogno di creare un impero basato sulla sottomissione di popoli che, a torto o a ragione, consideravano la Russia un paese con un grado di civilizzazione inferiore, arretrato e primitivo. Terza periferia, piuttosto che terza Roma, come vorrebbe ancor oggi la retorica di regime.

Vecchio Volodia, pochi supporter

Di nuovo, nel presente, il patetico tentativo di usare un collante ideologico per coprire l’assenza di visioni costruttive realistiche e credibili. Se in passato un vasto movimento comunista internazionale poteva aiutare a rilanciare anche in occidente e nel resto del mondo la nobile idea di una pax russo-sovietica basata sulla liberazione degli oppressi – paesi comunisti esclusi perché già fin troppo liberati, basta così grazie – adesso l’idea che la superiore moralità russo-ortodossa esportata sulla punta dei fucili porti una nuova aura di libertà nell’occidente corrotto dalla depravazione non sembra destinata a trovare molti supporter. Bel tentativo, vecchio Volodia, ma un po’ fuori tempo massimo. Vero che la strada dal KGB a Damasco è lunghetta, ma l’epoca delle spade a forma di croce è ormai decisamente fuori moda.
Anche il fattore tempo avrà, comunque, un ruolo cruciale. Per quanto tempo la Russia potrà reggere al proprio logoramento interno senza implodere in un vero e proprio fallimento dello stato? Dal punto di vista degli equilibri mondiali sarebbe probabilmente l’ipotesi peggiore: accelererebbe la dipendenza dalla Cina, già ora preponderante, aprendo lo spiraglio a un processo di colonizzazione che potrebbe non limitarsi ai territori asiatici e assumere forme anche meno dissimulate rispetto all’attuale presenza cinese nei paesi africani.
Per quanto riguarda il campo occidentale, credo che non avesse alternative al sostegno materiale immediato della causa ucraina, non solo perché non si può permettere una violazione armata di uno spazio europeo, ma anche a causa del dichiarato disegno imperiale dell’aggressore, esteso ai paesi baltici e al secolare sogno di assimilazione della Polonia.
Nell’insieme credo che un corretto disegno strategico occidentale non possa ora assolutamente auspicare una dissoluzione della Russia e sarei molto sorpreso se in qualche importante cancelleria si lavorasse in quel senso. La conseguenza più plausibile sarebbe un’espansione territoriale cinese su un formidabile serbatoio di materie prime e su vaste aree scarsamente popolate da colonizzare rapidamente. Il sogno di Gengis Khan finalmente realizzato.

San Pietroburgo

Un polo indipendente

Il disegno dell’occidente non può che essere quello di una Russia forte perché democratica e artefice al proprio interno di un processo virtuoso di separazione dei poteri, rispetto dei diritti umani, lotta alle mafie e alla criminalità eccetera. Formando così un polo indipendente solido e di peso, credibile per non essere assimilato all’ovest e quindi in grado di svolgere un ruolo di bilanciamento tra Europa e Estremo Oriente. Oltre che tra Europa e Mediterraneo meridionale, penisola araba e aree limitrofe. Vasto programma, che dovrebbe essere sostenuto da un nuovo piano Marshall che veda l’Unione Europea come promotore assieme a Gran Bretagna, Usa e paesi avanzati del sudest asiatico. Sarebbe un grande passo per una pace duratura.
Già, ma con chi negoziarlo? Difficilmente con Putin, ormai identificato in un ruolo di crociato antioccidentale.  Forse con qualche persona di buon senso in grado di influenzare l’apparato russo per evitare la fine o la miseria del proprio paese.  Ce ne sarà pur rimasta qualcuna, se ne erano sopravvissute anche in Germania e in Italia.
Se qualcuno sta lavorando a queste ipotesi non ce lo viene certo a raccontare. Per ora limitiamoci a cambiare canale e passiamo ai cartoni animati quando in prima serata o dai banchi del parlamento siamo inondati dalle insulsaggini di commentatori e politici improvvisati e disinformati. Quello che succederà davvero lo leggeranno anche loro sui giornali del mattino, sempre che si sveglino prima delle nove.

©Pierpaolo Mittica – Magnitogorsk (in russo: Магнитогорск?) è una città dell’oblast’ di Čeljabinsk in Russia. È situata nella sezione meridionale dei monti Urali lungo il corso del fiume Ural. Prende il nome dal monte Magnitnaja, una montagna quasi interamente composta da minerali ferrosi (con una percentuale di ferro tra il 55 e il 60%). Ospita il più grande impianto metallurgico russo per la produzione e lavorazione dell’acciaio, costruito a tappe forzate durante il primo piano quinquennale dell’Unione Sovietica. Alla città è dedicato l’asteroide 2094 Magnitka