Quel che resta della Siria dopo 12 anni di guerra

Reportage da Aleppo

E come se non bastasse ecco, improvviso, il terremoto. Ad aggiungere morte, dolore e macerie in un Paese già in ginocchio. Della guerra civile non si parla più. Così come è sparita l’attenzione dei media sugli effetti devastanti causati dal terremoto. Una fotografia impietosa. Un popolo ferito. I giovani che pensano solo a scappare. Ma se si scava sotto le macerie di una realtà che fa male si possono ancora trovare piccole fiammelle di speranza. Accese da persone animate ancora dal desiderio di ripartire, per provare a ricostruire ancora una volta. Voci dal vivo. Incontri da una terra martoriata. E colpevolmente dimenticata.


24 marzo 2023
di Andrea Avveduto

Un libro di scuola strappato è intrappolato sotto i detriti. La polvere copre i disegni che qualche bimbo aveva colorato forse la sera prima. Accanto al libro, un infradito colorato. Solo uno, impolverato perché lasciato lì da giorni. Altre cose sparse intrappolate sotto il cemento armato. Gli occhi a un certo punto si girano e guardano altrove, perlustrano le macerie già viste in questi anni di guerra. Eppure questa volta è diverso.
Quel che resta di un palazzo a Jableh non è la conseguenza di un bombardamento. Questa volta la minaccia non è venuta dal cielo, ma dalla terra. Del terremoto se ne parla ancora, certo, ma c’è chi prova a guardare avanti, come hanno fatto sempre. Anche se è sempre più difficile.

Un Paese sparito dai radar

Siamo in Siria, dodici anni dopo l’inizio della guerra che ha trascinato il paese nel baratro. Non c’è niente da festeggiare in questo anniversario, piuttosto i palazzi sventrati permettono di immaginare quanto bella dovesse essere, questa terra di papi e imperatori, terra di grano, di cultura, di bellezza, prima di quella sciagura. Oggi il paese è sparito dai radar: il terremoto l’ha rimesso sotto i riflettori, ma nessuno ce lo racconta. Sono pochissimi i giornalisti che riescono a ottenere il permesso, e in ogni caso bisogna stare bene attenti a quello che si dice. Non è mai bello fare una classifica delle disgrazie, ma ascoltando la gente che si sofferma a guardare le macerie, forse cercando i ricordi di chi non ce l’ha fatta, il commento è sempre lo stesso: “questo è niente rispetto a quello che ha fatto la guerra. Ad Aleppo sono crollati 70 edifici, ma quante centinaia ne sono caduti in questi anni senza che nessuno alzasse un dito per aiutarci?”.
Ha ragione Alì, un povero venditore ambulante che cerca di smerciare la sua verdura, ormai l’unico bene che si riesce a vendere.
“Voglio andarmene”. È la frase che più si sente tra i giovani. Non hanno più speranze: chi può lascia il paese, in un modo o nell’altro. Non tanto per sé. Anche. Più per i figli. “Non potrei mai perdonarmi di crescere mio figlio in un paese che non ha prospettive, dove non c’è nemmeno la possibilità di sognare un futuro”.
La lira siriana è ormai carta straccia. Solo sei anni fa un euro equivaleva a circa 200 lire siriane, oggi ne vale 7700. E l’inflazione galoppa, mentre i dipendenti pubblici percepiscono uno stipendio di circa 20 dollari al mese. Nel settore privato le cose vanno un po’ meglio, e lo stipendio arriva in media a 100 dollari. Ma si tratta di cifre assurde.
È difficile comprendere come la gente faccia a vivere in un contesto del genere. Compriamo un caricatore del cellulare: cinque euro. Sostanzialmente, un quarto di uno stipendio pubblico. E non è un prezzo per turisti, è la morsa dell’inflazione che ha lasciato tutti senza uno spiraglio di ripresa.

Aumento dei suicidi e delle malattie mentali

L’elettricità arriva solo per due ore al giorno. Meglio non chiedersi quali, perché non c’è una risposta. La corrente può arrivare alle due di notte come a mezzogiorno, alla mattina come al pomeriggio. Stessa cosa per l’acqua calda.
La doccia tiepida è un sogno per molti. “Si stava meglio in guerra”. Sembra uno scherzo, eppure è così. Lo dicono tutti. “Almeno in quegli anni un panino si riusciva recuperare, senza penare troppo. Da quando le grandi agenzie internazionali hanno declassato la Siria a paese di post emergenza, la vita è davvero dura”.
Rabbia e frustrazione, ma anche disperazione. Nell’ultimo anno i suicidi sono aumentati esponenzialmente. Come pure le malattie mentali. Una situazione inedita per la Siria, che entrando nel tredicesimo anno di guerra si trova a scavare le macerie umane e materiali. Ci vorranno anni, decine di anni per rimettere a posto quanto è andato distrutto. E poi c’è il terremoto che ha messo ulteriormente in ginocchio il paese.
Ci sono quelle vittime ancora sotto le macerie. Già, perché i mezzi per levarle da sotto non sono ancora arrivati. Le sanzioni internazionali bloccano ancora ogni forma di aiuto (anche se non formalmente). Intanto i topi sbucano da ogni parte, e vanno banchettare coi corpi senza vita schiacciati dai muri dei palazzi.
Qualcuno piange ancora davanti ai blocchi di cemento caduti gli uni sopra gli altri. Come Joussef, che ha perso la moglie e i suoi due figli sotto un palazzo vicino a Latakia. Uno dei tanti, che si confonde tra i numeri di una tragedia che in un minuto ha distrutto quanto un anno di guerra. E non parlategli di aiuti umanitari, perché allora vi risponderebbe così: “L’altro giorno è arrivato da un paese arabo un carico con alcuni prefabbricati. Li hanno posizionati in una bella posizione in centro città. Hanno chiamato qualche famiglia di sfollati per abitarvi dentro.
Una soluzione temporanea, dicevano. Era proprio così: il tempo di fare qualche foto da mandare sui media internazionali e nel giro di tre giorni hanno sfrattato le famiglie e spostato i prefabbricati da altre parti. Una presa in giro. Che vergogna”.
Se si fossero trovati in Turchia, più vicini all’epicentro, quegli edifici che un giovane ingegnere mi indica non avrebbero retto. Qualcuno sta collassando, me lo indica proprio mentre ci passiamo sotto. Non si bada più nemmeno al pericolo, tanto ci siamo abituati.
Dopo dodici anni di guerra, non è il terremoto a far paura. È la mancanza di lavoro, di prospettive, di futuro. Non c’è quasi nessuno, soprattutto giovane, disposto a rimanere. Difficile dargli torto, anche se vorresti dirgli che ognuno deve avere il diritto a restare, a farsi una carriera, a costruire il paese dove è nato e cresciuto. Retorica.

Quei piccolissimi segnali di speranza

“Hai visto da dove è passata la libertà?”, mi chiede un ragazzo mentre ci avviciniamo alla cittadella antica di Aleppo. Come lui, tanti pensavano che le proteste di piazza avrebbero portato più diritti e più libertà. Quel sogno oggi si è definitivamente infranto, e la Siria è stata sventrata lentamente, dagli uni e dagli altri che hanno provato a portarsi via un pezzo del paese, calpestando milioni di persone che oggi si trovano a vivere con stipendi da fame e una mancanza di speranza. Eppure, c’è chi ricostruisce sempre. Ogni volta che viene distrutto qualcosa.
Ad Aleppo si calpestano ancora i detriti tra i marciapiedi. Palazzi antichi già danneggiati durante la guerra hanno perso le loro ultime finezze architettoniche, che si nascondono per terra, tra le altre. “Ringraziamo Dio, perché siamo ancora vivi”. È il sentimento più diffuso, quello della gratitudine. “Dio non ci ha abbandonati. Siamo qui, e ricostruiremo quello che è stato distrutto”.
Chi lo dice ha un volto che emana gioia, nonostante tutto. Incredibile a dirsi, ancor più a scriverlo. Non è la conclusione edulcorata di un racconto che ogni anno si carica di tinte più drammatiche, ma l’unico spazio per aprire uno spiraglio.

La gratitudine è la stessa di Basel, un giovane ingegnere che ha deciso di dedicare del tempo gratuitamente per la ricognizione di alcune case distrutte. Si è unito a un gruppo di specialisti italiani durante una missione organizzata dalla ONG pro Terra Sancta. “Quando l’ho saputo, ho subito cercato di unirmi al gruppo. Voglio dare una mano a ricostruire il mio paese”. Non è scontato.
La maggior parte dei giovani se ne vuole andare, e non si nasconde più. Le prospettive sono infime, eppure ci sono ancora dei piccolissimi segnali a cui guardare, per sperare in un futuro migliore. “Ma non basta sperare. Bisogna provare a costruirlo. Io sono stato fortunato nella vita. Ho potuto studiare, fare una bella università e ho buone possibilità di fare un bel lavoro.  Voglio restituire un po’ quello che mi è stato. Con i miei amici, per le persone che vivono ancora qui. E con l’aiuto di Dio, sono sicuro che ce la faremo”.
Basta ancora una volta guardare i suoi occhi radiosi, per capire che ha ragione.