Guerra in Ucraina: la logica dei complotti non costruisce la pace vera.

Un anno dopo

Un anno fa esatto Putin dà ordine all’Armata Russa di invadere il territorio ucraina. Così inizia un tempo di catastrofe: morti, dolore e grandi incognite. Oggi sembra di essere in una fase di stallo, prima che qualcosa di peggio possa accadere. Ma questo dramma nel cuore dell’Europa cosa ci sta dicendo? Bisogna arrendersi alla mentalità della guerra, al metodo Putin e alla rassegnazione che non riconosce più il valore della libertà e la ricerca della verità? Molte domande aperte, tanta confusione sotto il cielo. Ne abbiamo parlato con il professor di Lingua e Letteratura Russa Adriano Dell’Asta: «Oggi, la grande sfida, per l’Occidente, non è quella di opporre potenza contro potenza, ma di iniziare subito un percorso di costruzione di un mondo diverso perché cosciente di questa responsabilità, ben sapendo che, per farlo, bisogna comunque mantenere uno spazio di libertà».


24 febbraio 2023
Dialogo con Adriano Dell’Asta a cura di Andrea Avveduto

Persone a Mosca contro la guerra i giorni immediatamente dopo il 24 febbraio 2022

“Per noi dare un giudizio significa cadere in una logica di giustizialismo, ma non è così. Padre Romano Scalfi, parlando del dissenso in Unione Sovietica, diceva che la preoccupazione primaria non deve essere svergognare i colpevoli, già condannati dalla Storia, ma far germinare il seme, che aveva già prodotto tanta vita”. Adriano Dell’Asta, classe 1952, professore di Lingua e Letteratura Russa alla Cattolica di Milano, vice presidente della Fondazione Russia Cristiana, si smarca subito dalla logica della geopolitica che vorrebbe due tesi contrapposte. Con lui, della Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana e vice presidente della Fondazione Russia Cristiana, a un anno dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, ragioniamo sul conflitto che ha toccato le porte dell’Europa.

Professore, dopo un anno, a che punto siamo arrivati?

Non lo sappiamo. A livello politico direi che oggi, a parte posizioni che ancora tendono a mettere sullo stesso piano aggressore e aggredito (e che considero moralmente inaccettabili e fondamentalmente irrealistiche), si confrontano due opzioni: una, che afferma la necessità di arrivare alla sconfitta di Putin ad ogni costo, e un’altra che, pur non volendo concedere la vittoria definitiva a Mosca, è preoccupata di evitare il rischio di uno scontro nucleare e punta piuttosto a una vittoria a lungo termine. Il problema è che, messa così la questione, non sembra di poter andare molto avanti sulla via della pace. Quello che mi sembra sia difficile che venga fuori in questo dibattito è l’interesse per le persone.

A questo arriviamo sicuramente. Ma non bisognerebbe prima capire da quali parti ci sono le reali responsabilità?

Certo, ma su questo non possono esserci dubbi: evitare il giustizialismo di cui parlavo prima o la logica di Cappuccetto rosso di cui parla il Papa non significa dimenticare che c’è un aggredito e c’è un aggressore, e che hanno nomi precisi. Per quanti errori possa aver commesso l’Occidente, non c’è nessun errore (geopolitico o altro) che possa giustificare una guerra come questa, che va oltre i piani di conquista di un territorio o di una sfera di influenza, ma sta distruggendo un paese. Oltre tutto, al di là delle responsabilità (comunque diverse delle due parti), Putin sta ottenendo il risultato contrario rispetto a quello che diceva essere il suo scopo. Guardiamo solo alla Nato, che non è mai stata così vicina fisicamente alla Russia come ora; o pensiamo al riarmo dell’Ucraina che Putin voleva smilitarizzare.

Padre Romano Scalfi fondatore di Russia Cristiana, un dialogo in un viaggio in Russia

Questa aggressione – seppur incomprensibile come dice lei – giustifica l’invio delle armi all’Ucraina?

Rispetto a questo tema mi permetto un’altra citazione da uno dei grandi testimoni della fede vissuto in Polonia sotto i due totalitarismi, padre Franciszek Blachnicki (1921-1987): “C’è un rapporto tra verità e paura che non va dimenticato. La verità libera l’uomo solo quando riporta la vittoria dell’uomo sulla paura. E dove c’è la paura c’è sempre schiavitù”. Finché le nostre decisioni saranno determinate dal ricatto della paura che la propaganda del Cremlino sta diffondendo tradiremo all’origine quella libertà che pretendiamo di avere e quella verità che pretendiamo di difendere. Ovviamente, come ci ricorda il catechismo, la difesa della verità e della libertà “è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale”, ma queste condizioni non possiamo imporle noi occidentali e, ancor più ovviamente, non possono essere imposte dall’aggressore. La libertà e la verità sono indivisibili: credere che possano valere solo in certe condizioni e per certe culture porta anche noi stessi a perderle.

Ma allora, cosa avrebbe dovuto fare l’Occidente rispetto a questa crisi?

Avrebbe dovuto muoversi prima, prendendo sul serio il valore delle persone, il valore della verità e della libertà della persona, e il senso della responsabilità che questo implica. Il grande errore dell’Occidente – quando è caduta l’Unione Sovietica – è aver dimenticato questa responsabilità, aver pensato che la storia fosse finita (ricordate il titolo del famoso libro di Francis Fukuyama La fine della storia?), e che quindi non ci fosse più niente da fare, che la libertà e la verità fossero un fatto assodato, cioè che la verità fosse nostra e che la libertà non dovesse richiedere una decisione quotidiana. Ma era tutto più complesso, come abbiamo visto. Aveva certo vinto la sete di libertà dell’uomo, ma questo non significava che la storia fosse finita e che avesse vinto l’Occidente; significava piuttosto che si poteva ricominciare a costruire un mondo – a rispondere liberamente alla sfida della verità – senza la minaccia di tensioni che si potevano trasformare da un giorno all’altra in una guerra vera e propria.

Sembra però che la Guerra Fredda non sia realmente finita, e se Putin vuole ricostruire l’Unione Sovietica, c’è qualcosa che non ha funzionato negli anni a ridosso della caduta del Muro? Perché Mosca ha questa necessità?

Uno dei motivi di quanto sta accadendo è la necessità per Putin di avere un nemico: si cerca di silenziare una crisi interna gravissima (economica, politica, identitaria, umana) trovando un nemico esterno. Un secondo motivo è legato al tipo di regime, non democratico, che si è andato affermando nella Russia post-sovietica e che aggredisce l’Ucraina perché è il modello di una democrazia che potrebbe essere imitata, pur con tutti i suoi limiti. A questo proposito, la storia della denazificazione come motivo per giustificare l’invasione, è una delle frottole più grandi che siano state inventate. Sui 450 parlamentari ucraini uno solo può essere attribuito a un partito di estrema destra… Si tratta di fantasia, di pura propaganda strumentalizzata anche in Occidente.

La sfida del controllo dell’opinione pubblica

Però è innegabile che alcune zone desiderano annettersi alla Russia. Non può essere considerata una via di fuga a livello politico, un compromesso a cui aggrapparsi?

È sicuramente innegabile che in certe zone dell’Ucraina ci fossero tensioni linguistiche e territoriali, come ce ne furono anche da noi con la questione dell’autonomismo e poi del terrorismo in Alto Adige ma, a parte l’esagerazione del tutto ingiustificata di chi ha parlato e continua a parlare di genocidio dei russofoni o di aggressione ucraina al Donbass (che comunque per il diritto internazionale è pur sempre terra ucraina), quelle tensioni potevano essere risolte ben diversamente: provate a pensare cosa sarebbe successo da noi, in Alto Adige, se l’Austria avesse invaso l’Italia come Putin ha fatto con la Crimea e poi con il Donbass? Qui siamo già fuori dalla contrapposizione tra democrazia o autoritarismo, è lo scontro tra un’immagine del mondo che si regge sulla forza bruta e un’immagine che si regge su aspetti di altra natura.

A parte la Santa Sede, a chi interessa davvero la pace? Ci sono stati dei ragionamenti seri intorno a un modello di pace o anche dall’altra parte si approfitta di questa crisi non tanto per salvare l’Ucraina quanto per indebolire Putin?

Non dobbiamo essere ingenui, ovviamente, e credere che la politica internazionale sia guidata da un gruppo di boy scout, ma l’idea di una guerra fatta su procura degli Stati Uniti per indebolire Putin è frutto di una mentalità complottista che si illude di trovare risposte semplici a questioni complesse, ma non trova nessun appiglio nella realtà (chi ha invaso e quando?) e, anzi, si scontra con alcuni dati di fatto innegabili come il carattere dittatoriale, aggressivo e imperialista del regime putiniano; non dimentichiamo a questo proposito, solo per accennare ad alcuni degli episodi più macroscopici, la guerra in Cecenia (e la pratica dell’attacco indiscriminato ai civili come succede oggi in Ucraina); e non dimentichiamo la definizione della caduta dell’Unione Sovietica come “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”: eravamo nel 2005, l’Ucraina non minacciava nessuno e, anzi, a quel punto aveva tutti i diritti di sentirsi minacciata, eppure nessuno in Occidente riuscì a trasformarla allora in una propria testa di ponte tanto che, in seguito, gli ucraini arrivarono persino a scegliere, liberamente, governi vicini a Mosca. Altro che complotti tutti da verificare: abbiamo davanti la vicenda di una realtà ben più complessa.

Un Convegno della Fondazione Russia cristiana

Però anche il Papa ha parlato di terza Guerra Mondiale a pezzi, come ad esempio in Siria…

Certo che c’è una guerra mondiale a pezzi; e va pure aggiunto che sono tanti i pezzi che ci dimentichiamo, sia di guerre tra Stati, sia di guerre civili, sia di guerre che tante dittature combattono contro i propri cittadini! Ma il problema è anche più complesso: da una parte, c’è il problema di chi scatena i singoli pezzi di questa guerra e, dall’altra, c’è il problema che se parliamo di una specifica guerra non possiamo metterci a parlare di un’altra, perché così non si risolve nulla: ci si mette a discutere dei massimi sistemi e ci si perde in astrazioni dove, come dicevo all’inizio, l’unica cosa di cui non si parla mai è la situazione reale delle persone reali.

È anche vero che non possiamo ignorare certe alleanze strategiche, che forse non sono prove vere e proprie. A pensar male si fa peccato, ma è difficile sbagliarsi…

Però ogni tanto ci si sbaglia, anche: come quando si denunciavano i campi di concentramento sovietici e ti replicavano che però in America picchiavano i neri… e capivi che il problema non era difendere i neri, ma non mettere in discussione la speranza nella rivoluzione mondiale.

È possibile parlare di questo conflitto senza schierarsi? Quali criteri possiamo individuare per farlo?

Non solo è possibile, ma bisogna farlo per creare degli spazi di dialogo, tuttavia come ho già detto, il non schierarsi non va confuso con una forma di relativismo; è possibile abbracciare la bandiera insanguinata di Buča, dire che c’è un aggredito e un aggressore, come ha pure fatto il Papa e, contemporaneamente, respingere la logica di Cappuccetto Rosso. Sembrano due cose in contraddizione, ma non lo sono affatto; anzi, tenerle insieme è la cosa più efficace e suscettibile di sviluppi che ci sia. Solženicyn ha pronunciato la denuncia più chiara di ciò che Reagan chiamava il male assoluto, e cioè il comunismo, ma a un certo punto, proprio nell’opera in cui aveva pronunciato in maniera più chiara questa condanna, l’Arcipelago Gulag, Solženicyn diceva: “chiuda pure il libro chi si aspetta di trovarvi una qualche rivelazione politica. Come se ci fossero solo uomini cattivi e uomini buoni. Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ogni uomo. Ora lo stesso uomo è più vicino al male, ora è più vicino al bene”. È un’idea che mi ricordava recentemente Elena Žemkova, una delle responsabili della ONG Memorial: “per noi vanno ricordati come vittime del regime anche coloro che fino al giorno prima erano i criminali e i boia più terribili”.
È relativismo questo? No, tutt’altro: semplicemente, una posizione di questo tipo ti spalanca il cuore, ti impedisce di chiudere la porta a ogni tentativo di dialogo, con la pretesa di avere in mano la verità, senza cadere nella pretesa, non meno violenta, di poterla negare. Noi non siamo capaci di superare questa alternativa, e non ne siamo capaci perché siamo prigionieri di un giudizio che è solo geopolitico, dove l’infinito dell’uomo non viene preso sul serio. Chiamare l’aggressore per nome non vuol dire umiliare Putin, ma ricordare il bene che vuole distruggere: anche la libertà che sceglie il male è la libertà misteriosa del cuore dell’uomo, ed è a questa libertà che dobbiamo parlare, parlare di una verità alla quale tutti dobbiamo rispondere. Altrimenti l’unica alternativa che resta è quella tra il relativismo e il nichilismo dei potenti.

È questo costruire la pace?

Esatto. Dire la verità, come una cosa che non è tua e davanti alla quale, della quale sei responsabile. Io credo che il vero errore dell’Occidente sia nato dalla presunzione di avere la verità in mano, e non come una cosa donata a cui rispondere. Oggi, la grande sfida, per l’Occidente, non è quella di opporre potenza contro potenza, ma di iniziare subito un percorso di costruzione di un mondo diverso perché cosciente di questa responsabilità, ben sapendo che, per farlo, bisogna comunque mantenere uno spazio di libertà. Il vero “piano Marshall” (di cui si è parlato poco seriamente in questi giorni) non è quello di qualche potente che ci dice cosa dobbiamo fare, ma quello di chi vuole offrire una possibilità per costruire insieme. Tuttavia questo non è possibile se non c’è una verità con la quale tutti dobbiamo fare i conti, se non c’è lo spazio di libertà per farli e se non si riconosce all’altro un valore che non dipende dalle concessioni di un qualsiasi potere. Con il corollario di non poco conto che a questo piano e a queste condizioni – verità, libertà e dignità – potrebbero davvero partecipare tutte le parti in causa.

Padre Alexandr Men, sacerdote ortodosso ucciso il 9 settembre 1990 , figura dal largo seguito, di lui disse Sergej Averincev mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno