Un io rifugiato. E il “noi” di Hannah Arendt

Siamo alla “cosificazione” degli esseri umani. Alla cultura del “carico residuale”. Papa Francesco non ci sta. Punge. Dall’avvio del suo pontificato ha parlato di cultura dello scarto. Dall’aborto agli ultimi messi da parte. Arriva, provvidenziale, un libro di Hannah Arendt dal titolo quanto mai attuale: “Noi rifugiati”. Un pensiero sferzante di chi ha vissuto l’esperienza di una vita da senza patria. Una testimonianza forte che non appartiene al passato. Lei, una rifugiata strappata alla propria terra. Alla propria storia. In fuga, nel 1933, dalla Germania nazista. Ma «c’è, nonostante tutto, un noi. E si sente che l’articolo della grande filosofa tedesca è rivolto ai suoi, al suo mondo, alla sua gente. Oggi, ottantanni dopo, quel noi è più appannato, travolto dalla società dei consumi, “piallato” dalla logica dello scarto. Che uccide e uccide due volte. Ma è ancora possibile».


18 novembre 2022
di Alessandro Banfi

Un fotografo dell’Ansa/AFP ha catturato un’istantanea a bordo della Ocean Viking, una delle navi delle Ong che raccolgono migranti naufraghi nel Mediterraneo. Si vede uno scatolone semichiuso, da cui esce la testa di un bambino che dorme, e fuori si legge bene la scritta a pennarello rosso, con una freccia, che dice: France. Via. Da spedire. In una scatola. Merce da far correre. E del resto la “cosificazione” degli esseri umani era già avvenuta nella fulminea immagine linguistica del Ministro degli Interni italiano, quando aveva parlato di “carico residuale”, riferendosi a gruppi di migranti.

La nef Ocean Viking a Tolone – Migranti ancora non ammessi ©ANSA AFP

Il caso ha voluto che tutta questa polemica scoppiasse e si alimentasse proprio nei giorni in cui la casa editrice Einaudi ha stampato in italiano “Noi rifugiati” di Hannah Arendt che traduce e ripropone, per iniziativa di Antonella Di Cesare che ne scrive anche la prefazione, un saggio in inglese della grande filosofa comparso la prima volta a New York nella rivista “The Menorah Journal” nel gennaio del 1943, in piena Seconda guerra mondiale.
Coincidenza del tutto casuale, ma in qualche modo provvidenziale per chi avesse la fortuna di leggere il testo della Arendt in questi giorni, quando le dissertazioni di dove debbano poi finire questi esseri umani a rischio morte nel Mediterraneo si sovrappongono e creano un sottofondo nelle chiacchiere da bar dei nostri connazionali. Tutte giuste le considerazioni politiche. Tutte giuste le dissertazioni su regole e diritti. Ma la Arendt ci ricorda, attraverso la propria testimonianza personale, che cosa significhi anzitutto “in soggettiva”, in prima persona, diventare un “io rifugiato”.

Hannah Arendt

Dolore e denuncia

La storia gira e le circostanze contingenti cambiano. Ma la sofferenza dell’uomo colpito nella sua dignità e nel suo diritto di vivere nella propria terra resta uguale con tutte le conseguenze piscologiche, morali e spirituali del caso.
I profughi, i rifugiati, i migranti si somigliano tutti, sempre. Si portano dietro il fardello di un fallimento oggettivo, scappano da dove vorrebbero vivere in pace e si sentono rifiutati dagli Stati e dagli altri uomini.
Hannah Arendt prende la sua macchina per scrivere e in inglese (lei che lo stava imparando) lancia con questo saggio un grido di dolore e di denuncia. È apolide. Senza patria. Quando scrive è senza nazionalità da 10 anni, e lo sarà ancora per 8 lunghi anni. La sua storia è questa (biografia  https://it.wikipedia.org/wiki/Hannah_Arendt ): la Arendt fugge nel 1933 dalla Germania nazista. Scappa dal suo Paese con la madre, dopo essere stata detenuta e interrogata per otto giorni e poi rilasciata dalla Gestapo, per le sue attività contro il nazismo. Non ha documenti, passa per il cosiddetto “confine verde”, le foreste dei Monti Metalliferi, e arriva a Praga. Da qui ripara a Genova, quindi a Ginevra e finalmente a Parigi. Nella capitale francese si stavano intanto raccogliendo diversi ebrei in esilio. Hannah Arendt sopravvive, da apolide, ottenendo lavori temporanei e si impegna nelle organizzazioni umanitarie ebraiche.
Conosce molte personalità della cultura, fra cui Walter Benjamin che poi si toglierà la vita, ed incontra quello che sarà il compagno di tanti anni: Heinrich Buchler. Quando i nazisti invadono la Francia, nel 1940, viene internata in un campo di detenzione francese, da cui riesce a scappare e, attraversando i Pirenei e la Spagna, raggiungere Lisbona. Da qui si imbarca per New York, dove arriva nel 1941. 

Quando scrive, vive da due anni a Manhattan ma ha assistito a tanti suicidi, vite spezzate anche dal rifiuto burocratico degli Stati Uniti. E argomenta con grande lucidità:

«Il nostro ottimismo è in effetti ammirevole, anche se siamo solo noi a dircelo. Finalmente è emersa la storia delle prove che abbiamo attraversato. Abbiamo perso la nostra dimora vale a dire l’intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso il nostro lavoro, cioè la fiducia di essere di qualche utilità nel mondo. Abbiamo perso la nostra lingua ossia la naturalezza delle reazioni, la semplicità dei gesti, l’espressione spontanea dei sentimenti. Abbiamo lasciato i nostri parenti nei ghetti polacchi, mentre i nostri migliori amici sono stati assassinati nei campi di concentramento, e questo significa la lacerazione delle nostre vite private. Ma non appena tratti in salvo – e molti di noi hanno dovuto essere salvati più volte – abbiamo cominciato una nuova vita cercando di seguire nel modo più scrupoloso tutti i saggi consigli che i nostri Salvatori ci hanno prodigato. Ci hanno detto di dimenticare…».

Ma poi l’angoscia per questa docile integrazione, non davvero piena, provoca qualcosa di terribile, una specie di epidemia fra quei “rifugiati”. Ancora la Harendt:  

«Qualcosa non va nel nostro ottimismo. Ci sono tra noi quegli strani ottimisti che, dopo aver tenuto un gran quantità di discorsi ottimistici, una volta rientrati a casa, o aprono il gas oppure fanno uso di un grattacielo in modo piuttosto inatteso. Sembrano dimostrare cosi che il nostro tanto declamato buon umore si basa su una pericolosa disposizione alla morte. Cresciuti nella convinzione che la vita sia il bene supremo e la morte l’orrore più grande, siamo diventati testimoni e vittime di atrocità che sono peggiori della morte, senza però essere stati in grado di scoprire un ideale piú alto della vita».

Per poi aggiungere:

«A differenza di quel che avviene in altri casi di suicidio, i nostri amici non lasciano nessuna spiegazione per il loro gesto, nessuna accusa, nessuna denuncia contro un mondo che ha costretto una persona disperata a parlare e agire di buon umore sino all’ultimo giorno. Le lettere che lasciano sono documenti convenzionali, privi di significato. Perciò anche le orazioni funebri che noi teniamo dinanzi alle loro tombe ancora aperte sono brevi, imbarazzate e piene di speranza. Nessuno si preoccupa dei motivi, perché sembrano chiari a tutti».

Hannah Arendt

Un noi appannato ma certo

L’unico leader mondiale che sembra preoccuparsi di quello che accade ai milioni di senza patria che viaggiano oggi sul nostro pianeta è papa Francesco. Nella Evangelii Gaudium (scarica qui il testo integrale https://bit.ly/3UIppyi ), al numero 53, scrive: «Grandi masse di popolazione si ve­dono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’es­sere umano in sè stesso come un bene di consu­mo, che si può usare e poi gettare.
Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppres­sione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenen­za alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”».
Sono passati quasi ottantanni da questo saggio di Hannah Arendt eppure la sua analisi profonda e precisa di come si possa vivere “senza patria” torna d’attualità in un modo impressionante. In un modo che sgomenta e in qualche modo mobilita, come nota Antonella Di Cesare. C’è quel “noi” del titolo, “Noi rifugiati”, quella coscienza di comunità, di identità, che continua a fare premio. Che continua ad alimentare la speranza. C’è, nonostante tutto, un noi. E si sente che l’articolo della grande filosofa tedesca è rivolta ai suoi, al suo mondo, alla sua gente.
Oggi, ottantanni dopo, quel noi è più appannato, travolto dalla società dei consumi, “piallato” dalla logica dello scarto. Che uccide e uccide due volte. Ma è ancora possibile.