Alla ricerca della chiave d’accesso all’affetto, all’amicizia e all’amore

Un lettore attento della letteratura israeliana contemporanea comunica l’esperienza di continua esplorazione con l’opera del grande autore di Tel Aviv. Stavolta provocato dal sentirlo raccontare di sé, dei suoi scritti, dei suoi personaggi, al Centro Culturale di Milano. «La sua lettura è avvincente. Trame originalmente drammatiche, che a volte ci trasportano in dimensioni dai toni onirici, circostanze di improbabile paradossalità che ci coinvolgono così nel gioco con distacco, ma non tanto impossibili da non aprire invece uno spiraglio di confronto e interrogativo con le nostre umane e universali vicende». Storie, dialoghi, volti, impressioni che si fanno materia via. Passaggi che si fanno luce.


4 novembre 2022
di Walter Ottolenghi

Nella narrativa israeliana contemporanea – perlomeno nel limitato orizzonte della mia consuetudine con i suoi autori – ogni racconto sembra compiersi nel segno dell’incompiutezza.

Questo contradditorio bisticcio di parole per descrivere, a grandi linee, il senso di smarrimento e insieme di levità che mi rimane al termine della lettura. Mai però dell’ansia che poteva lasciarsi dietro, ad esempio, l’incompiutezza della lettura kafkiana. Anche se il trait- d’union c’è e neanche tanto nascosto.

 

Ecologia dell’anima

Come lettore mi sento trasformato piuttosto in una di quelle creature volanti di Chagall, nella loro vasta gamma tra angeli e mucche, secondo le circostanze, oscillanti tra materialità e immaterialità, ma accomunate dallo stesso sguardo dall’alto sulle vicende di terra. «Tutto può cambiare nel nostro mondo demoralizzato, fuorché il cuore, l’amore dell’uomo e il suo affaticarsi per conoscere il “divino”». Citazione del pittore che mi sembra rendere la mia sensazione.

Milan Kundera scriveva che «la conoscenza è la sola morale del romanzo. Il romanzo che non scopre una porzione di esistenza finora ignota è immorale». Questo mette in luce la dimensione di scoperta che rende morale investire il nostro tempo per leggere e, ancor più, per scrivere. Altrimenti è uno spreco di risorse, uno sfregio all’ecologia dell’anima.

Curiosamente, e lo scopro in questo momento, la parola conoscenza stabilisce un ponte tra le due citazioni, tra due diversi registri di creatività, entrambi focalizzati sulla liberazione dalla demoralizzazione o dall’immoralità, due handicap dell’essere forse non così diversi e lontani, se non altro perché basta uno solo dei due per smarrirci e con lo stesso risultato.

Esplorare la scrittura di Eshkol Nevo e sentirlo raccontare della sua opera e di sé, ospite del Centro Culturale di Milano, è stato un po’ un ripercorrere il filo di queste e di altre sensazioni.  E ho avuto, almeno penso, delle conferme.

 

Uno spiraglio di confronto reale 

Ho sempre guardato con una certa ironica incredulità alle diciture che accompagnano spesso film, opere teatrali e narrative che attestano come fatti e personaggi ma che, invero, non abbiano alcuna attinenza con la realtà. Fatte salve le evidenti implicazioni giuridiche, mi sembra ovvio che l’opera esista solo in quanto ha attinenza con la realtà, indipendentemente dal suo realismo. Anzi, a volte in modo inversamente proporzionale.

Ed è la realtà che vive il suo autore: personaggi, luoghi, vicende (o suoni e colori, nel caso) sono “lui”, anche se forse è il primo a non rendersene conto: la terzietà e il distacco sono forse una difesa da un sé reale con cui si fatica a fare i conti.

Su questo Nevo appare lucido e, anche per questo, la sua lettura è avvincente. Trame originalmente drammatiche, che a volte ci trasportano in dimensioni dai toni onirici, circostanze di improbabile paradossalità, che ci coinvolgono così nel gioco con distacco, ma non tanto impossibili da non aprire invece uno spiraglio di confronto e interrogativo con le nostre umane e universali vicende.

Così i personaggi volanti chagalliani con cui possiamo identificarci si librano sopra l’Israele dei nostri giorni, di cui quasi nessuno di noi ha un’esperienza diretta. Perché la conoscenza che Nevo ci trasmette è quella di un uomo israeliano dei nostri giorni, di una sua ricerca di liberazione sicuramente interiore, ma altrettanto sicuramente condizionata da una realtà circostante che rappresenta un unicum evidentemente problematico da decifrare.

Non solo per chi non ci ha mai messo piede, ma anche per chi vi ha trascorso una parte significativa della propria vita. Problematicità comune questa, senza voler generalizzare, a buona parte della narrativa israeliana contemporanea.

 

Alla ricerca del baricentro dell’essere

Nel teatro di questa società postmoderna e secolarizzata, intricata molto più di altre del nostro tempo nel labirinto di un’incombente precarietà, i personaggi di Nevo si muovono cercando i fili dei loro legami, il senso delle loro relazioni ed esplorando nella profondità di sé stessi il baricentro dell’essere.

L’enigma da risolvere per trovare la chiave d’accesso all’affetto, all’amicizia e all’amore. Personaggi sedotti e insieme composti dal bagaglio dei propri segreti, contemporaneamente zavorra ma anche percepita speranza di occasione per gettare un ponte sicuro e stabile verso l’altro, la comunicazione dell’inconfessato come sigillo di una ritrovata confidenza, di un affidamento all’altro che apre le porte di una nuova esperienza e, chissà, di un nuovo inizio. Anche in questo senso sono storie che in realtà non finiscono, ma si fermano sulla soglia di questo inizio, ci accompagnano fino al punto in cui spetta a noi mettere a frutto il pezzo di conoscenza dell’umano che ci hanno trasmesso, farlo giocare col nostro pensiero, coi nostri sentimenti e, perché no, coi segreti che solo noi ci portiamo dentro – a volte senza nemmeno conoscerli davvero – e, auguriamocelo, con la nostra speranza.

L’improbabilità o la paradossalità dei racconti, come nelle tragedie greche e nelle loro maschere, fanno da schermo al realismo del messaggio, alle ferite che scopre. Creano una sorta di distacco e di lontananza che, in realtà, tali non sono. Come uno scivolo che ammorbidisce le asprezze di una discesa in profondità che può fare male, ma pure rimane l’unico modo per riveder le stelle in fondo al viaggio.

 

La mancanza che si fa tramite 

Nevo, nell’incontro dal vivo, ha raccontato di come abbia provato una sensazione di prossimità tra quello che tenta di dire nei suoi racconti e ciò che immagina continuasse a sentirsi raccontare il prete che stava nel confessionale di una chiesa di Torino dove era entrato per protestare delle campane che lo svegliavano nel suo appartamento lì vicino. Le ferite del nostro intimo che tutti ci accomunano. Di questo la sua scrittura si mette in ascolto e, come attraverso un prisma, ne tira fuori i diversi riflessi che trovano ispirazioni nelle esperienze e negli incontri di chi vive nel paese oggettivamente più originale del mondo. Concetto che meriterebbe considerazioni più estese, ma qui decisamente fuori contesto.

Che le parole siano il tramite di una forza che provoca il cambiamento, a volte salvifico, è, o dovrebbe essere, un’esperienza ben presente nelle storie di chiunque. Quando la forza del cambiamento tocca i livelli più profondi e intimi dell’io, di quanto riposto negli angoli più inaccessibili, emerge un magma che ridisegna il paesaggio interiore con una materia intatta che attende di essere fecondata.

Ed è un percorso del dirsi non necessariamente privo di ambiguità. «Era chiaro che si era arrischiata a mettere il suo destino nelle mie mani per spingere me a mettere il mio destino nelle sue (Le vie dell’Eden, La Strada della Morte). Pur sempre è un passaggio che fa luce.

La mancanza, l’handicap, non vengono eliminati, ma si fanno tramite. … «non può non vedere che manca quello che avrebbe dovuto stare dove c’è il buco. Ha impiegato anni a capire che un buco è anche qualcosa attraverso cui si può vedere» (Le vie dell’Eden, Un uomo entra nel frutteto).

 


Fotografie
2 – Marc Chagall
3 –  Credit © AFP PHOTO ABBAS MOMANI
4 – Dal film Tre piani (romanzo di Eshkol Nevo) di Nanni Moretti
5 – Marc Chagall
6 – Eshkol Nevo al CMC 18.10.2022