Zitti e mosca
Per conto di un giornalismo che ama libertà e verità.

Fa impressione leggere oggi La Russia di Putin scritto da Anna Politkovskaja nel 2004. Un libro di fatti, non di analisi politiche. Di storie drammatiche e annullamento della dignità delle persone. Un lavoro in profondità, lucido e allo stesso tempo appassionato. Che le è costato la morte nel 2006. Ma queste pagine restano un memorabile atto d’accusa contro un modesto ex ufficiale del Kgb che da ventidue anni domina quel grande Paese. Co un uso spregiudicato del potere e della forza. E che oggi ha scatenato una guerra che è la tragedia sotto gli occhi di tutti


20 maggio 2022
di Enzo Manes

Da un punto di vista che non è il nostro, quello Occidentale. Leggere La Russia di Putin di Anna Politkovskaja (Adelphi) di questi tempi grami e interrogativi richiede proprio quel salto lì.
Ne vale la pena per aggiungere qualche elemento alla comprensione; ne vale per la pena quando il rischio del piegarsi al peso dell’abitudine sembrerebbe prendere il sopravvento (non c’è da stupirsene, né rammaricarsene: è così).
Il libro in questione non è fresco di stampa. È stato saggiamente rieditato, ma in Italia è uscito nel 2005. L’anno precedente a Londra quasi in concomitanza con la consegna dello scritto all’editore. La storia è nota: i contenuti del libro come di altri articoli firmati dalla giornalista russa con cittadinanza statunitense (nata a New York nel 1958) le sono costati la vita. In modoparticolare hanno procurato fastidio i suoi reportage sulla seconda guerra cecena, le aspre critiche rivolte alle forze armate, i diritti umani calpestati nel suo Paese, le puntuali denunce circa l’assenza di democrazia e l’alto tasso di corruzione.

Anna Politkovskaja fu assassinata a Mosca mentre rincasava. Il 7 ottobre 2006.
Nel giugno 2014 cinque uomini ceceni vennero condannati per l’omicidio. Esecutori del crimine. Non sono mai stati individuati i mandanti.
Il libro è un prezioso contributo – racconta del periodo tra il 2000 e il 2004 – per muoversi e capire come si è potuti arrivare alla Russia presente. Ma non è un saggio di analisi politica, mette in avviso lei stessa. Politkoskaja, piuttosto, lo definisce «un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia. Perché per il momento non riesco a fare un passo indietro e a sezionare quanto raccolto, come è bene che sia se si vuole analizzare un fenomeno. Io vivo la vita, e scrivo ciò che vedo».
Un buon metodo per fare del buon giornalismo: vedi, ascolta i testimoni, setacci, raccogli, verifichi e pubblichi. Fatto questo nella Russia controllata da Putin non poteva essere un buon affare. La giornalista di Novaja gazeta, testata invisa al regime, aveva messo in conto i pericoli che correva. Tuttavia, non ha abbassato lo sguardo, ma ha fatto suo il cammino sull’acciottolato sconnesso della libertà, della realtà, della verità. Questo libro ne dà conto in misura sovrabbondante. Perché «parla di Putin senza toni ammirati». Un argomento, commenta con amarezza la giornalista «non molto in voga in Occidente».

Il fauno zarista

Akakij Akakievič è il protagonista de “Il cappotto”, un racconto che Nikolaj Gogol’ scrive nel 1842. Un fauno della burocrazia pietroburghese.
Il celebre autore lo tratteggia con queste parole: «Bassino di statura, un po’ butteratino, un po’ rossiccio, dall’aria perfino un po’ miope, piuttosto stempiato, con rughe ai due lati delle guance e quel colorito del viso che suol dirsi emorroidale…». Scomodiamo Gogol’ e il suo personaggio perché a Politkovskaja ricorda moltissimo, prima di tutto nel fisico, Vladimir Putin che, il 14 marzo 2004 viene rieletto sul trono di tutte le Russie, un’elezione plebiscitaria in perfetto stile sovietico – burocratico – autoritario. Colui che era stato subalterno sia da militare e sia nel Kgb trova la sua rivincita. Tappeto rosso ancora una volta. Tappeto rosso trovato, ritrovato e srotolato al Cremlino per il suo solenne ingresso; un po’ come il cappotto che il modesto Akakij Akakievič va alla ricerca e infine trova 1)

Akakij Akakievič Putin ha costruito una Russia a sua immagine e somiglianza. Obbediente perché impaurita. Corrotta perché impotente. Violenta perché fragile e insicura. Tutte le storie sono sale su una ferita che sanguina e sanguina.
Nulla è indipendente perché tutto dipende da lui. Il capo. Fa e disfa. Il potere giudiziario è sotto strettissimo controllo della politica. Per dire, non vi è controllo della società civile sui militari. E allora si consumano soprusi, nefandezze, violenze terribili senza che abbia a manifestarsi un barlume di giustizia.
«In Russia l’esercito – uno dei pilastri istituzionali dello Stato – continua a essere un campo di concentramento per i giovani che finiscono dietro il suo filo spinato», vede Politkovskaja, un giudizio cui ci viene naturale tener conto al tempo dell’invasione dell’armata russa in terra Ucraina. Altro che i lustrini della parata militare del 9 maggio…

Quel che è accaduto in Cecenia

La seconda guerra in Cecenia per combattere il terrorismo internazionale (così la motiva Putin) viene raccontata dall’autrice dei reportage per conto del suo giornale (in questi giorni pubblicato in esilio) attraverso storie, voci, lacrime di madri inconsolabili e padri atterriti davanti all’esperienza di figli spariti, morti, dimenticati. Tutta la prima parte è un crescendo di disumano esercizio del potere praticato da generali e ufficiali.
Verso giovani soldati semplici vessati, umiliati e offesi e anche di più: «Se, per esempio, un ufficiale deve farsi riparare la macchina non ha soldi, manda in officina qualche soldato, che ci lavorerà gratis per tutto il tempo che il meccanico riterrà necessario»; verso donne e ragazzine che hanno la colpa di essere cecene e quindi complici dei terroristi. La loro vita, nella normale brutalità di quel regime in assenza di Stato di diritto, conta nulla. Rapite, violentate, strangolate: una sinfonia macabra.
Che così ben descrive Politkovskaja, nel documentare passo passo, quello che lei chiama il l’affaire Budanov, colonnello in entrambe le guerre cecene, artefice di crimini brutali. Un caso quasi incredibile, quello; tra nascondimenti, insabbiamenti, inchieste, processi, tentativi di assoluzione per insabbiare un peccato troppo grande anche per un regime assai “peccaminoso”. Alla fine, come si conviene alle dittature, la sua condanna venne data in pasto all’opinione pubblica quale segno di Stato lungimirante.

Il cinismo contagioso

Nel libro ogni storia ha il posto che merita. Un unico atto d’accusa allo strapotere dello zar del XXI secolo, al vertice della piramide del neo – sovietismo in salsa di autarco – capitalismo – statalismo. Esercitato dal duemila. La bellezza – meglio la bruttezza – di ventidue anni. Ma quel che è la Russia di Putin non è solo nelle grandi vicende che Politkovskaja racconta con caparbia precisione ma in anche in episodi apparentemente banali come l’ascesa/discesa dell’amica Tanja.
La vita la porta dalla assai periferica Rostov alla capitale Mosca. Anna l’aveva lasciata che era poverissima ma quando la ritrova scopre che vive nel lusso grazie a servigi, a favori dati e ricevuti, all’elogio praticato di sentimenti fuggevoli anziché zavorrati da obblighi coniugali non più confacenti alle sue voglie da soddisfare.
Politkovskaja non la riconosce più. Anche in lei riconosce la terribile mutazione in atto. Putin ha raggiunto il suo scopo: il suo cinismo ha contaminato. Per questo la giornalista può sentenziare: «I veri responsabili di quanto sta accadendo siamo noi. Noi, e non Putin.(…) La nostra apatia è stata senza confini e ha concesso a Putin l’indulgenza plenaria per gli anni a venire».

Ideologia e nichilismo

E a proposito di grandi vicende che poi sono sempre tragedie, la giornalista che amava la libertà ne ricorda un paio che allora fecero il giro del mondo: il sequestro di attori e pubblico in un teatro di Mosca da parte di un gruppo di terroristi ceceni avvenuto il 23 ottobre 2002 e l’irruzione di un commando internazionale di criminali in una scuola a Beslan, Ossezia del Nord, il 1° settembre 2004. In entrambi i casi, Putin sceglie di agire con la forza soffocando qualsiasi iniziativa. E furono carneficine con il sacrificio consapevole di molti ostaggi e l’utilizzo di armi per nulla convenzionali.
Una pratica vincente, un’affermazione di autorevolezza, un accrescimento del potere. «Terrorismo e antiterrorismo, macine di uno stesso mulino che ci riduce in farina».  Uno sfarinamento dell’umano, avvertiva Politkovskaja. Un nichilismo che tende a contaminare tutti: persone, facce, comunità. La Russia di Putin che stiamo conoscendo nei giorni dell’invasione e della violenza esercitata in Ucraina è l’innaturale desolazione della ragione ottenebrata evidenziata da una giornalista che ha inteso testimoniare con audacia e anelito di verità un’altra possibiltà.
Nel documentare l’abisso nel quale è precipitato quel grande Paese troppo incline a far proprio l’irriducibile volto dell’ideologia forte. «A prestar fede ai sondaggi di opinione condotti da società che non hanno nessuna intenzione di perdere i loro contratti con l’ufficio del presidente, il tasso di popolarità di Putin non è mai stato così alto. Il presidente ha dalla sua la stragrande maggioranza dei suoi connazionali. Tutti si fidano di lui. Tutti approvano quel che fa».

A prestar fede ai sondaggi…. Nel 2004 come oggi.


1) Nel 1999, a settembre, una serie di attentati dinamitardi a Mosca ed in altre città russe provacò circa 300 morti. Gli attentati non furono mai rivendicati, ma le autorità russe, senza alcuna prova, non esitarono a dichiararne la matrice cecena.
Ancora oggi non si è fatta luce su quelle stragi, ma il particolare tipo di esplosivo impiegato e la confessione di Aleksei Galtin, un ufficiale del GRU, al giornale inglese “The Independent” sembrerebbero indicare un coinvolgimento dei servizi segreti russi. E dal 1998 era Vladimir Putin il capo dei servizi segreti federali. Candidatosi alle elezioni presidenziali del 2000, appoggiato da Eltsin, aveva fatto della guerra in Cecenia per “il ristabilimento di legge ed ordine” uno dei temi elettorali su cui puntare maggiormente: è evidente quanto abbia potuto trarre vantaggio dalle crescenti tensioni sulla questione cecena.
Ma perché questo tema facesse veramente presa sul popolo russo fu necessaria una campagna mediatica di disinformazione e criminalizzazione dell’intero popolo ceceno sistematica e martellante.