Lo strappo dalla verità delle parole: il caso dell’empatia

20 maggio 2022

@Lucia Laura Esposto – via Fratelli Castiglioni

Il professor Ivano Dionigi, già rettore a Bologna all’università Alma Mater, in questi giorni ci ha ricordato (La Repubblica, 14/05/2022) come da qualche tempo a questa parte – in modo particolare nel processo che ha condotto alla globalizzazione ora in crisi strutturale – la parola stia correndo il rischio di perdere il proprio destino, «ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, ormai preda dell’ignoranza e dell’ipocrisia (…)».
Degradata. Distaccata dalle «cose». Depotenziata se non addirittura utilizzata secondo un significato del tutto diverso dall’originale. Insomma, parola sbiadita.
Non più affermazione e promozione di pensiero autentico. Vero. ‘Quel’ pensiero e solo quel pensiero. Ciò avviene nella normalità della vita senza che ce ne accorgiamo. Partecipiamo così di un impoverimento personale e di comunità. Esiliamo la parola in un’ingordigia di parole che lentamente perdono ossigeno, muoiono strappate alle cose, non più attaccate alla realtà delle cose per quel che sono.

L’apertura di credito verso l’altro

Una delle parole che più patiscono l’usura, la riduzione e il progressivo impoverimento lessicale è “empatia”.
Quante volte ci ritroviamo ad utilizzarla nelle nostre conversazioni oppure ad ascoltarla in dibattiti o leggerla nel contesto di interviste, riflessioni, analisi.
Tuttavia essa viene trattata per soddisfare concetti che nulla hanno a che fare con il suo significato autentico. Nella narrazione convenzionale si rinvia l’empatia alla sfera del sentimento morale, dell’altruismo.
Se non, addirittura, per circoscriverla alla simpatia e all’antipatia.
Beninteso, questo può accadere in perfetta buona fede. Tuttavia, la mutilazione rimane.
L’empatia è una bellissima e sorprendente parola. In quanto, nella sua verità profonda, richiama la dimensione dell’alterità, della persona che fa esperienza dell’incontro con l’altra persona. È una parola, un concetto fragile perché, fuor di convenzione e traduzione semplicistica e accomodante, riguarda il punto cruciale dell’esistenza.
Dice Laura Boella, ordinaria di Filosofia morale all’Università degli studi di Milano, che «l’empatia sta al centro delle contraddizioni del mondo contemporaneo: è stata messa a dura prova dalla pandemia, che ha modificato la grammatica delle relazioni impersonali. Oggi stiamo a vedere cosa succederà con la guerra che va avanti». (Robinson, 7/05/2022). Boella offre unadefinizione di empatia che scombina i piani del divorzio lessicale in atto. Eccola: «Liberata dai suoi aspetti emotivi, la vedrei come l’esperienza di relazione. L’apertura all’altro. (…) Empatia non è sinonimo di buonismo. (…) Essa pone la centralità dell’altro, è un’apertura di credito verso l’altro, da cui può nascere tutto, anche il conflitto».
Boella definisce l’empatia una forma di incontro perché «gli incontri sono il nostro romanzo di formazione, la nostra storia che non può fare a meno delle storie degli altri, è la storia di ciò che si è diventati, ciò che si è. Anche grazie al duro lavoro».

Un’ecologia linguistica

Le parole sono importanti. Chiamarle in causa per quel che vogliono dire in rapporto stringente, affettivo alle cose è un passaggio di verità. «Costruttori di una quotidiana Babele, avvertiamo il bisogno di un’ecologia linguistica che restituisca alla parola il potere diilluminare, non di nascondere e sequestrare la realtà (…)», precisa Dionigi nello scritto più sopra citato.

Chiudiamo, non certo dimenticando il fecondo contributo sul tema dell’empatia che ci ha lasciato Edith Stein, monaca con il nome di Teresa Benedetta della Croce, filosofa, mistica tedesca dell’Ordine delle Carmelitane Scalze, di origine ebraica convertitasi al cattolicesimo e morta ad Auschwitz il 9 agosto 1942.
Una riflessione profonda, attualissima, circostanziata, che dà alla parola il suo significato vero e vivo. «È un vissuto originario, una realtà presente: quello che presentifica, però, non è una propria impressione passata o futura, ma un moto vitale, presente ed originario di un altro che non si trova inalcuna relazione continua con il mio vivere e non lo si può far coincidere con esso. Mi pongo dentro il corpo percepito. Come se fossi io il suo centro vitale e compio un impulso quasi dello stesso tipo di quello che potrebbe causare un movimento – percepito quasi dall’interno – che si potrebbe far coincidere con quello percepito esternamente. Se la presentificazione empatizzante non fosse motivata dalla percezione esterna, allora non si distinguerebbe dalla fantasia. Perciò essa partecipa al carattere posizionale dell’apprensione motivante. Sia il contenuto della percezione esterna che quello dell’empatia si accordano vicendevolmente, nella misura in cui ho osservato il movimento vitale originario, che cerco di rendere intuitivo empatizzando, come realtà».
Per Stein, dunque, l’empatia non è che due soggetti diventino uno, non è immedesimazione o semplice partecipazione emotiva.
Ma è il riferirsi all’altro da sé come riconoscimento della differenza conoscitiva, come interesse alla persona, alla sua realtà.
E così nella relazione si avvia e si fa esperienza di una corrispondenza essenziale tra il mio essere e l’essere dell’altro.
Ecco perché è inopportuno e segno drammatico di incuria, continuare a utilizzare e deprimere la parola empatia. Esempio eclatante del procedere post umano della decomposizione delle parole.