Linguaggio e politica
Resilienza e l’uso di parole in libertà

Il destino di un termine che va per la maggiore. Un successo da hit parade. Sempre o quasi in vetta alle classifiche. In uno stupefacente crescendo rossiniano. Quali le ragioni di questa amplificazione semantica? Una fortuna che chiama in causa una certa pratica politica. È il linguaggio di questi tempi, bellezza!

19 febbraio 2022
di Alessandro Banfi

Di che cosa parliamo quando parliamo di politica? È curioso notare come le parole che si stanno imponendo nel dibattito pubblico rispecchino altrettanti tic, tabù e significati nascosti nel pensiero dominante. Prendete ad esempio il termine “resilienza”. È una parola che ha avuto una grande fortuna negli ultimi anni, in un crescendo di amplificazione semantica che l’ha portato ad essere presente nell’acrostico più citato di questi mesi: il decisivo Pnrr. Pnrr sta per Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, incarnazione italiana del progetto Next generation UE. Mica bruscolini. Resilienza viene dal linguaggio tecnico dei materiali: è quella capacità di una specifica materia di reggere un urto senza rompersi. È stata per prima la psicologia ad applicarlo alla dinamica umana, identificandola nella capacità di resistere e di reagire di fronte a difficoltà, avversità, eventi negativi. Il Covid 19 l’ha fatta inflazionare. “Ora e sempre resilienza!”, potremmo dire. Ecco ma nella battuta c’è già una spiegazione ideologica della fortuna del termine. In Italia la parola resistenza, molto spesso il vero concetto che si vuole trasmettere quando si usa la parola resilienza, è associato ad un fatto storico politico ben preciso: la lotta al Nazi-Fascismo in Italia. La Resistenza con la r maiuscola, quella dei partigiani sulle montagne 1943-1945. Usarla evoca sempre una lotta strutturale, radicale, se non verso la dittatura, verso un forte sopruso. Volete un esempio? Quando Francesco Saverio Borrelli difese la magistratura da Procuratore generale a Milano contro le riforme dell’allora governo Berlusconi, nel gennaio del 2002, lanciò lo slogan: “Resistere, resistere, resistere”. Che poi diventò anche il titolo di un suo libro di memorie. È vero: Borrelli in quell’occasione, a scanso di equivoci, lì per lì citò il Piave e non il Fascismo. Ma il sapore era quello. Dunque: la Resistenza non può andare bene a tutti in Italia. È una parola troppa divisiva. Se poi pensate la popolarità attuale di una Giorgia Meloni, i sondaggi sui partiti di destra, persino il caso di un sottosegreatrio leghista, come Claudio Durigon, che voleva sostituire con Arnaldo Mussolini la memoria di Falcone e Borsellino, idea per cui ha poi dovuto dimettersi… ecco capite che mai e poi mai Mario Draghi avrebbe potuto mettere nell’acrostico europeo il termine “resistenza”. Così limpido, così ingombrante. Dunque viva la “resilienza”. Così neutra, asettica, un po’ incolore, pensosa, in un’immagine politica che ne spiega la grande fortuna: super partes.

Nuovo Totem linguistico
Già le partes, cioè i partiti. Un altro termine che è caduto in disgrazia nel lessico politico, fin da Mani Pulite e poi dai tempi della predicazione anti Casta. Con la prima Repubblica sono cadute le formazioni politiche tradizionali del dopoguerra, ad eccezione del Partito Comunista Italiano. Pci che infatti poi, pur cambiando nome ed evolvendosi, ha conservato la parola partito nel nome: Partito Democratico. Se ci pensate, tutti gli altri player politici del momento hanno tolto il nome dall’insegna della ditta: Movimento 5 Stelle, Lega Nord, Forza Italia, Italia Viva, Fratelli d’Italia, persino i raggruppamenti più piccoli non usano più il termine partito: Articolo Uno, Coraggio Italia, Alternativa c’è, Noi con l’Italia… Possiamo dirlo: partito uguale Tabù. La cosa buffa è che contemporaneamente il nuovo Totem linguistico è la parola “Italia”. Almeno cinque partiti fanno sventolare la bandiera nel loro nome. Peggio di Toto Cotugno a Sanremo. Totem e tabù vanno sempre insieme, come aveva intuito il grande Sigmund Freud. Ma perché l’idea di partito è diventata Tabù? Piero Ignazi ha dedicato un saggio per Il Mulino al tema che è tutto da leggere. Qui ci conforta la sua analisi politologica solo per sostenere che non è un problema italiano (pensate come da Trump in Usa a Macron in Francia sono state commisariate e svuotate le vecchie sigle) ma è un’intera concezione di democrazia che viene messa in discussione, a livello globale. E in secondo luogo che ad andare in crisi in Italia è soprattuttto l’idea leninista di partito, cui Ignazi si riferisce. Un partito cioé che sa entrare, fino all’identificazione, nello Stato moderno e che, pur macinando consenso tra burocrazia e corruzione, perde il vero contatto con la società e con i corpi intermedi. Per restare alle discussioni politico-culturali italiane, fu il vero scontro nella Democrazia Cristiana dopo il 1948: da una parte la concezione neo leninista di Amintore Fanfani, dall’altra quella di Alcide De Gasperi che inseguiva l’idea di partito leggero, quasi comitato elettorale, che doveva camminare sulle gambe della società e dell’associazionismo civico. De Gasperi ne uscì sconfitto. E certamente il partitone di Fanfani, dell’Iri, dell’Autosole, dell’Ina case, ebbe tanti meriti. Innegabile però che alla fine smarrì la sua vera missione.

Democrazia malata
Ma quello che determina il clima oggi, dicevamo a livello planetario, è proprio la crisi della convivenza civile. Ecco un’altra parola chiave del lessico attuale che appare infatti in grande crisi: democrazia. Essere super partes è diventata una virtù perché la parte, che non si deve più chiamare partito, si è trasformata in qualcosa di sempre più violento e aggressivo. Il soggetto politico vincente in questa fase delegittima l’avversario politico, contende lo spazio pubblico, non contempla più un linguaggio comune. Il mondo è sotto choc, da un certo punto di vista, per almeno tre circostanze che nell’ultimo anno e mezzo hanno segnato tutti noi e che coinvolgono l’idea stessa di democrazia: l’esplosione della pandemia, l’assalto a Capitol Hill dei sostenitori di Trump del gennaio 2021 e il ritiro delle truppe americane da Kabul.

Il dilagare improvviso del Covid 19 nel 2020 ha costretto tutti i Paesi del mondo a fare i conti con misure d’emergenza sanitarie che hanno finito per limitare la libertà dei cittadini. Come ha notato, con grande realismo, Angela Merkel, esempio raro di leader politico con studi scientifici alle spalle, le democrazie occidentali hanno dovuto avere i reparti di terapia intensiva degli ospedali in emergenza, prima di prendere misure draconiane, come il lockdown. I regimi più autoritari, da quello cinese a quello russo, non dimenticando Turchia e anche Ungheria, hanno dato l’impressione di essere più efficienti. Mentre le democrazie occidentali hanno dovuto fronteggiare movimenti di opinione, magari minoritari ma molto violenti e agguerriti, che hanno manifestato fortissime critiche ai Governi democratici e alle loro decisioni. Democrazia è diventato, paradossalmente, sinonimo di debolezza anche nei confronti di chi pretendeva di protestare in nome della “libertà” (altra parola oggetto di una confusione tutta contemporanea). Un grande storico tedesco, Marc Bloch, rimase colpito dal propagarsi di quelle che oggi chiameremmo “fake news” nelle trincee dei soldati tedeschi durante la Prima Guerra mondiale. Non c’erano i social ma le “false notizie” in tempo di paura per la guerra, anzi di terrore bellico, si propagavano in frettissima (da rileggere il suo breve saggio edito in Italia da Fazi editore La guerra e le false notizie). Oggi i No Vax propagano, in modo veloce, clamorose bugie.

L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 ha evidenziato che gli Stati Uniti, Nazione guida dell’Occidente, che avevano sempre mantenuto, come principio assoluto e regolatore di tutte le relazioni interne e internazionali, la libertà e la democrazia, o se preferite, la democrazia liberale, venivano meno a quel principio. Metà della Nazione marciava contro le istituzioni sulla base di notizie false, avvallate dal presidente uscente Donald Trump. La democrazia e la libertà da allora non sono più nel sacro recinto condiviso della vita pubblica, vengono messe fra parentesi in nome di una battaglia continua di metà del Paese. Battaglia che si è saldata, fra l’altro, con l’atteggiamento No Vax, impedendo l’immunità di gregge in America.

Il ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan, con la caduta di Kabul in mano ai Talebani nel giorno di Ferragosto del 2021, ha ulteriormente rafforzato l’impressione di uno svuotamento di quei principi. Che cosa significa infatti trattare coi Talebani (operazione iniziata da Trump con gli accordi di Doha e conclusa da Biden) e lasciare a loro il potere, se non mettere fra parentesi quella che per anni è stata sbandierata come la giustificazione della missione militare: e cioè l’esportazione della democrazia? Si può sorvolare sulla mancanza della democrazia liberale. La diplomazia americana lo fa già con la Turchia, l’Arabia Saudita, per certi versi con la Russia. Sicuramente lo fa da anni con la Cina, da quando ha accettato l’ingresso del regime comunista di Xi nel commercio mondiale, la cosiddetta globalizzazione, senza chiedere conto del rispetto dei diritti umani, dei diritti delle minoranze e di quelli delle donne. Senza chiedere conto della mancanza di libertà.

La stessa organizzazione interna delle nostre società occidentali è segnata da un’enorme potenziale controllo sociale che arriva ai particolari della nostra esistenza: è il controllo dei social e dei colossi monopolistici della rete, attraverso i dati che noi stessi forniamo. Regaliamo costantemente informazioni sulla nostra persona e sulla nostra esistenza in cambio di una serie di servizi. Il valore della libertà , il valore della democrazia, il valore di un linguaggio comune della politica sembrano venire meno. E con essi le parole che lo raccontano.