1943: quando intellettuali cattolici anticipano la Costituzione repubblicana

Crisi di una convivenza

Il Paese è ancora in guerra, soffre, la dittatura fascista indebolita continua pervicacemente a perseguire i propri piani distruttivi. Una brutta fotografia. Eppure c’è un gruppo di studiosi cattolici che si ritrova nel Monastero di Camaldoli per pensare e gettare le basi su come costruire il futuro dell’Italia. Un metodo di lavoro assai efficace. E molto attuale. La lezione viva del Codice di Camaldoli.


19 maggio 2023
di Enzo Manes

Monastero e eremo di Camaldoli

Nel mese di luglio del 1943, solo qualche giorno prima della caduta di Benito Mussolini, lo scenario sempre suggestivo del monastero di Camaldoli, vede arrivare un gruppo di intellettuali e professionisti che si riconoscono nell’esperienza cristiana.
Mentre l’Italia sta vivendo il dramma della guerra e le lacerazioni prodotte dalla dittatura fascista, in quel luogo riparato, dal 18 al 24 luglio, personalità si ritrovano animate dal desiderio di condividere pensieri che possano contribuire alla rinascita di un Paese allo stremo.
Questo nel luglio del 1943; lì si pensa già all’Italia che verrà, al dopoguerra. Da quella settimana di fecondo e profondo lavoro ne uscirà qualcosa di molto importante, appunti e annotazioni che diventeranno un documento fondamentale che contribuirà alla costruzione e alla stesura della Costituzione italiana. Quel testo porta il nome di Codice di Camaldoli.
Una vicenda storica di grande rilevanza che però non viene troppo ricordata, una dimenticanza che dovrebbe far riflettere.
Può essere che la circostanza dell’ottantesimo anniversario di quell’evento, finalmente stimoli riflessioni autorevoli, soprattutto in un momento dove tanto si discute di Costituzione e di vari maquillage ritenuti necessari. Come sulle ragioni che hanno determinato uno stato di certificata crisi della democrazia.
Prima del “fare”
Dunque, in quel tempo così drammatico, quotidianamente attraversato da fatti tragici (e fino al 1945 e anche immediatamente oltre), un avveduto e preoccupato gruppo di cattolici italiani, assume l’impegno di dar corpo a un’architettura dell’Italia di domani, una casa comune positiva e propositiva nella quale il popolo, che così tanto stava patendo, ritrovasse una doverosa centralità, un protagonismo responsabile teso a promuovere e caratterizzare la sovranità repubblicana.
Il Codice di Camaldoli non è un documento che intenda affermare un’egemonia, non contiene alcunché che possa richiamare logiche di contrapposizione.
Si tratta di un testo inclusivo, ispirato e redatto da uomini per la vita di altri uomini; un testo di relazione che nasce allo scopo di essere accettato e condiviso in quanto risultato di una trama di pensieri intonati, armonici e pertanto rispettosi delle diversità e delle specificità plurali.
Ma perché tornare oggi a quella vicenda, a quel passaggio culturale e storico allo stesso tempo? Non solo per le parole e le proposte che lo definiscono (che dicono tanto, certo), quel che colpisce è il metodo, il ritrovarsi per pensare, discutere a fondo, dar conto di una visione di prospettiva, ampia e di respiro, prima del cosiddetto “fare”.

La Pira e Aldo Moro

Anche se, a ben vedere, in quei dialoghi si sta già “facendo”.
A Camaldoli, in quel luglio assai complicato, ci si adopera per tenere insieme cultura e politica. Ecco la lezione che vale per l’oggi.
Quegli uomini ritengono imprescindibili i partiti e le diverse espressioni della società civile. La crisi sopraggiunta di quei soggetti, mai come oggi così evidente e preoccupante, esplicita un indebolimento degli slanci ideali, una malattia profonda dalla quale parrebbe assai complicato uscirne. La qual cosa riguarda tutta la comunità e, beninteso, non è un deficit che chiama in causa solo l’Italia.
Montini e De Lubac
Il principale protagonista del Codice di Camaldoli, pur non presente fisicamente ai lavori, è un giovane intellettuale, Sergio Paronetto (1911 – 1945). Egli viene seguito, perché stimato, da Giovanni Battista Montini impegnato alla Segreteria di Stato (futuro Paolo VI), particolarmente attento alla presenza della Fuci, è l’assistente spirituale di quella realtà universitaria.
Si può asserire che Montini, più di chiunque altro nella Chiesa ma certo sostenuto dal vertice, non a caso di parla di invisibile regia, avverte l’urgenza di lavorare per il dopo fascismo, per l’edificazione di un Paese libero e democratico.
Montini è convinto che i cattolici possono e devono offrire il proprio contributo alla necessaria rinascita dell’Italia post dittatura ridando linfa al popolarismo di matrice sturziana.
Fervono, insomma, accese e motivate riflessioni interne innervate anche dai richiami attrattivi di una personalità quale Henry-Marie de Lubac, il quale rimarca, focalizzandosi sulla centralità dell’uomo che egli è «libero e padrone della realtà, che attraverso la ragione interpreta e comprende la volontà della Provvidenza e che si inserisce in modo ordinato, ottimista e creativo, nel flusso della Storia e del mondo».
Ciò per dare conto che a Camaldoli si giunge dopo un percorso formativo e di domande aperte.
Nomi eccellenti
I lavori prendono il via il 18 luglio 1943. È domenica. I partecipanti sono circa una trentina: docenti universitari, economisti, giuristi, sociologi, tecnici, dirigenti, teologi. Gli incontri si svolgono nel cenobio del convento. La polizia fascista non sospetta di nulla perché sa che periodicamente in quel posto si tengono momenti di spiritualità.
Perciò, ritengono inopportuno preoccuparsi di quegli arrivi.
Tra gli altri vi partecipano: Ludovico Montini, avvocato e fratello di Giovanni Battista Montini, poi parlamentare per più legislature; Ezio Vanoni, economista e tributarista, ministro delle Finanze e del Bilancio padre della riforma tributaria tesa a favorire un maggiore potere d’acquisto delle famiglie e delle fasce medio basse della popolazione; Adriano Bernareggi, professore di Diritto ecclesiastico all’Università Cattolica di Milano, vescovo di Bergamo; Emilio Guano, biblista, vice assistente della Fuci tra il 1933 e il 1955, partecipante attivo al Concilio Vaticano II e alla stesura dei principali elaborati, vescovo di Livorno; Giulio Andreotti; Vittore Branca, letterato di vaglia; Guido Gonella, giornalista, parlamentare, segretario politico della Democrazia Cristiana, quattordici volte ministro; Giorgio La Pira, giurista, professore universitario, membro attivo dell’Assemblea Costituente, parlamentare, sindaco di Firenze; Aldo Moro; Paolo Emilio Taviani, docente universitario di Geografia e Demografia, partigiano antifascista, parlamentare, più volte ministro, segretario politico della Democrazia Cristiana. Figure di primo piano, destinate a lasciare un’impronta nella storica politica, sociale e culturale del secondo dopoguerra.

I° Congresso Nazionale DC – Roma, 24-28 aprile 1946 Guido Gonella, su mandato di Alcide De Gasperi svolge una relazione sulle libertà come fondamento della nuova Costituzione italiana.

Il primato dell’uomo
Il Codice di Camaldoli, pubblicato nel 1945 e proprio a ridosso dell’aprile di liberazione con il titolo “Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli, si compone di novantanove proposizioni.
Il testo, dopo qualche pagina di premessa incentrata sulla società e i destini dell’uomo, prosegue delineando sette diversi ambiti architrave laddove vengono dettati pronunciamenti di principio e vere e proprie linee di lavoro. Su questioni dirimenti. Eccole: l’organizzazione dello Stato, la famiglia, l’educazione, il lavoro, la produzione e lo scambio, l’attività economica, la vita e il dialogo necessario da promuovere a livello internazionale (non dimentichiamo che si viene da due conflitti mondiali). Nel testo si esprime il primato assoluto dell’uomo, la tensione all’uguaglianza da non confondere con l’egualitarismo, il valore civile della cultura sussidiaria (nessuna separazione tra società e Stato); infatti nel documento si sottolinea che è il popolo come corpo politico che origina al suo interno lo Stato in quanto forma di organizzazione del potere, di salvaguardia dei diritti e della promozione del bene comune.
Altresì si motiva perché è importante la forma di rappresentanza propria della democrazia quando effettiva, cioè espressione concreta della libertà del soggetto/cittadino. Gli echi delle encicliche “Rerum Novarum” di Leone XIII e Quadragesimo Anno di Pio XI come il pensiero di Jacques Maritain e il famoso radiomessaggio di Pio XII per il Natale del 1942 si riscontrano nel tessuto complessivo del documento.
La dignità del lavoratore
La parte dedicata al tema del lavoro occupa un rilievo assai significativo.
Vi si legge che esso è fondamentale nel corrispondere alla natura della persona e quindi alla sua dignità. In tal senso il diritto al lavoro contiene il dovere del lavoro. E pertanto vanno create le condizioni affinché ciascuna persona abbia a lavorare avvertendone lo scopo in condizioni opportune e retribuzioni appropriate.
L’importanza storica del documento è accertata.
I suoi contenuti si dispiegheranno fino a innervare la futura Costituzione italiana. Quando Palmiro Togliatti ha tra le mani il Codice, una volta letto, manifesta stupore, perché fortemente impressionato come ricorda Franco Rodano.
Il Codice di Camaldoli mantiene tutto il suo vigore e interesse. E la circostanza dell’ottantesimo anniversario di quelle giornate vivaci e fondative può essere oggi motivo di una approfondita riflessione sulla freschezza della cultura cattolica quale perno dialogante, inclusivo, sempre contemporaneo.
La presa di coscienza è una postura spartiacque. Come lo è stata nel 1943. Accompagnata, come è scritto nel testo, «da un’immediata istanza e da un positivo impegno di ricerca, di ricostruzione, di affermazione di un ordine sociale che elimini e riformi gli elementi di dissoluzione, di involuzione, di incoerenza rispetto ai fini essenziali dell’uomo e della società».

Henry de Luca e Jean Marie Lustiger vescovo di Parigi